La videoarte ha una componente sperimentale unica rispetto ad altri media. Qual è stato il suo approccio nel lavorare con gli artisti di art/tapes/22 e come ha visto evolversi l’estetica della videoarte nel tempo?
Sono passati molti anni da quando con art/tapes/22 mi sono appassionata alla video arte, non credo che tutt’ora questa espressione sia in qualche modo all’avanguardia. Il tempo brucia le esperienze più sperimentali ponendole molto presto nella storia ufficiale dell’arte: è proprio la immediatezza dell’informazione che oggi rende difficile e forse anche inutile ogni nuovo modo di espressione artistica. Gli anni 80 erano in assoluto gli anni dei cambiamenti e l’arte si esprimeva con grande libertà dalle performance dove gli astisti esponevano sé stessi diventando l’opera (dopo Duchamp) alla video arte dove il lavoro non era nella narrazione ma nella visione: un’opera mobile.
Analizzando il concetto di “processo” nella videoarte, il titolo di un suo incontro “ART IS A PROCESS NOT A PRODUCT” suggerisce una visione dell’arte come un continuo divenire, divenire che probabilmente ha fatto proprio anche Bill Viola. Come ha visto questo concetto emergere nella produzione artistica di art/tapes/22 e come crede che si applichi all’arte contemporanea oggi?
Art tapes 22 ha messo in pratica proprio il concetto che l’arte esiste solo nel momento in cui l’artista la realizza, dopo rimane la sua testimonianza. Anche un quadro testimonia il momento in cui l’artista la ha creata. L’arte sta nel momento in cui viene realizzata, dopo è solo la memoria di quel momento magico.
Molti degli artisti con i quali ha collaborato, come Vito Acconci e Alighiero Boetti, esploravano la dimensione concettuale dell’arte. Quanto era importante per lei il concetto rispetto alla forma nel processo di produzione dei videotape?
Il video era proprio la testimonianza del momento creativo, e in quel momento c’era già tutta l’opera.
Con artisti come Marina Abramović, Rebecca Horn e Vito Acconci, invece la videoarte spesso si fondeva con la performance. In che modo la presenza del corpo e dell’azione ha contribuito allo sviluppo della videoarte?
Bisogna distinguere tra i video che sono stati la memoria di azioni della body art e video che sono essi stessi l’opera. Marina Abramovic ha fatto con me il primo video art is beautuful art must be beautuful del 1974che non era una performance ma un lavoro progettato solo per il video. Successivamente in molti altri video Marina ha documentato performances che senza questo mezzo sarebbero andate perse e solo testimoniate dalla memoria della storia dell’arte.
Guardando al panorama artistico contemporaneo e digitale, dove vede la videoarte posizionarsi? Che ruolo può avere in un mondo sempre più dominato da tecnologie immersive come la realtà virtuale e aumentata, e gli infiniti utilizzi delle tecnologie AI?
Credo che l’epoca della video arte abbia concluso la sua storia, la tecnologia va avanti e l’arte si accorda con tutti i nuovi mezzi per esplodere e manifestarsi: è sempre stato così dalle pitture rupestri ai mezzi elettronici di oggi, l’arte è la testimonianza del proprio tempo, altrimenti è solo accademica.
Avendo vissuto e lavorato con così tanti artisti di fama mondiale, come descriverebbe il suo legame personale con l’arte? Quale eredità sente di aver contribuito a lasciare nel mondo dell’arte, sia a livello estetico che concettuale?
Non sono io che ho lasciato un’eredità nel mondo dell’arte: io sono stata uno strumento per gli artisti che hanno lavorato con me in art/tapes/22 e che hanno coraggiosamente inaugurato con me una nuova forma espressiva: sono certa che con il video si sia aperta una nuova pagina di libertà che ha tolto l’arte dal solo concetto di manualità spostando il suo valore dalla bravura operativa manuale all’immenso universo delle idee e del concetto. “Art as idea as idea”, “art after philosophy” (Joseph Kosuth).