Arte Fiera 2025
Marco Vignati. Sheer Pulses. Installation view, Galleria Lampo, Milano, 2024 – Courtesy l’artista. Foto di Marco Vignati

Marco Vignati alla Galleria Lampo di Milano

Dimensioni eteree, quasi intoccabili che si scontrano con princìpi terreni ed organici, soggetti allo scorrere del tempo. Le opere di Marco Vignati sono il risultato di contrasti e intime riflessioni visive che conducono lo spettatore in una dimensione straniante e, allo stesso tempo, commemorativa. 
In occasione della sua prima personale Sheer Pulses presso Galleria Lampo a Milano – visitabile fino al 17 novembre – sono state poste alcune domande all’artista per attraversare il suo percorso, partendo dagli esordi per giungere alla sua produzione più recente, imprevedibile ed enigmatica.

Barbara Niniano: Mi piacerebbe iniziare con una sorta di presentazione, chiedendoti qual è la tua formazione e come è iniziato il tuo percorso di avvicinamento al mondo dell’arte.

Marco Vignati: Partendo dal liceo, io ho fatto uno scientifico ad indirizzo tecnologico. L’approccio scientifico ha sempre fatto, in qualche modo, parte di me e del mio modo di ragionare, ed è per questo che poi sono riuscito anche a portarlo all’interno dell’arte che produco.
Subito dopo mi sono iscritto alla triennale di Arti Visive con una specializzazione in Fotografia presso l’Istituto Europeo di Design (IED), e l’ultimo anno ho deciso di specializzarmi nell’indirizzo Moda.
Di base, all’interno di questo mondo, mi è sempre interessata l’analisi della fotografia da un punto di vista artistico, anche se ai tempi non ne ero pienamente consapevole. Tutto ha avuto inizio da una fortuita coincidenza perché la prima lezione del primo giorno di università fu tenuta da Silvio Wolf, professore e artista, che fece un discorso introduttivo sull’immagine fotografica. Solo col tempo mi sono reso conto che quell’intervento mi aveva aperto un mondo sulla fotografia intesa anche come opera d’arte, cambiando radicalmente la concezione che avevo sempre avuto riguardo al mondo fotografico stesso.
Ho cercato, poi, durante i miei studi, di portare la fotografia ad un livello che prediligevo, ovvero quello installativo.

Mi riaggancio, quindi, a queste ultime riflessioni chiedendo che ruolo ha la fotografia nella tua concezione artistica.

La fotografia è per me un punto di partenza: nonostante all’inizio abbia provato una certa resistenza nei suoi confronti, ne sono sempre stato profondamente affascinato. La considero uno stimolo per riflettere sull’immagine, concentrandomi in particolare su quella fotografica, portatrice di limiti e potenzialità specifici che ho imparato a esplorare a fondo. Questo interesse nasce dal suo ruolo come “involucro di memoria”. È proprio da questo assunto che traggo spunto, senza sentire il bisogno di approfondire altre forme visive.
A riguardo citerei Ugo Mulas, che usava la tecnica fotografica non per raccontare storie, ma come strumento di indagine, inaugurando una fotografia in grado di riflettere su sé stessa. Questo approccio, che si focalizza, quindi, sull’essenza di questo mezzo, rispecchia pienamente il mio interesse.

Le tue opere ruotano attorno a tematiche affini e, allo stesso tempo, contrastanti tra di loro. Equilibrio, resistenza e staticità spesso si scontrano con la presenza di un’aura quasi intoccabile, sospesa, in grado di evocare estrema fragilità e suggestione. Qual è il rapporto vigente tra questi concetti all’interno dei tuoi lavori?

Devo dire che, di base, la contraddizione fa parte proprio del mio essere, e questo conflitto si riflette inevitabilmente in ciò che creo. Da un lato le mie opere sembrano sospese in una dimensione eterea, quasi intoccabili. Dall’altro, puntano invece a un livello più terreno, cercando di spogliarsi della loro aura iconica per avvicinarsi a una condizione più organica, legata alla vita e soggetta al degrado nel tempo.
Questo contrasto, in fondo, è qualcosa che ci appartiene come esseri umani: cerchiamo di creare strutture “immortali” perché siamo consapevoli della nostra natura effimera. Penso, ad esempio, alle piramidi che sono costruzioni pensate per lasciare una traccia di noi, per comunicare qualcosa che possa resistere oltre la nostra esistenza. Anche le mie opere, seguendo questa logica, sono una traccia che racchiude, da un lato, la nostra transitorietà e, dall’altro, il desiderio che qualcosa di noi sopravviva nel tempo.
Mi piace quindi creare un contrasto tra forme e materiali che richiamano l’aura delle strutture funebri, come a voler racchiudere l’effimero in un involucro che aspira all’eterno. È proprio in questo senso che, per esempio, utilizzo il marmo – materiale per eccellenza simbolo di permanenza – per conferire a qualcosa di intrinsecamente temporaneo un senso di eternità.

A questo proposito, mi collego osservando che ogni tua opera tiene conto di precise scelte stilistiche, formali e, soprattutto, materialistiche. Che valore e che significato ha l’uso e la scelta di precisi materiali all’interno dei tuoi lavori?

Oltre al marmo, utilizzo anche ferro e legno, materiali legati alla mia infanzia in modo molto intimo: i miei nonni, infatti, erano molto abili nel lavorarli e mi hanno insegnato a trattarli sin da piccolo. Essi sono quindi un retaggio delle mie radici, una connessione profonda con il mio passato. Forse anche in modo inconscio, attribuisco a questi elementi un valore speciale, perché in qualche modo mi riportano alle mie origini e ai ricordi d’infanzia.

I tuoi lavori richiamano intime riflessioni visive, alludendo a un immaginario che, quasi intenzionalmente, si riallaccia ad un’estetica commemorativa. Puoi parlare del ruolo della memoria e del ricordo all’interno della tua arte e, come abbiamo rimarcato prima, di come e quanto questi influenzino le scelte dei materiali utilizzati?

La memoria, e il ricordo in generale, mi evocano un senso di spleen: una malinconia che è dolorosa, ma non sofferta. La memoria è da sempre ciò che mi spinge e mi accompagna, un sentimento che ho avvertito profondamente fin da bambino. È l’unico tema che sento ardere costantemente dentro di me, legato all’idea di qualcosa che non potrà mai più tornare com’era.
Forse proprio l’impossibilità di fermare il tempo mi ha avvicinato alla fotografia, uno strumento attraverso cui, con il tempo, ho preso consapevolezza e cercato di rappresentare questo fenomeno nelle mie opere. La memoria è quindi il fulcro del mio lavoro, un tema che mi affascina per la sua natura sfuggente e incontrollabile. Fin da piccolo, infatti, percepivo il dolore del cambiamento: la perdita di persone, gli eventi che modificano irrimediabilmente le cose, il fluire del tempo che non possiamo arrestare.
Questo senso di sofferenza legato al tempo, all’inevitabile passare e trasformarsi delle cose, è qualcosa che mi interessa esplorare e analizzare continuamente.

Giungiamo a parlare della tua prima personale, Sheer Pulses, visitabile fino al 17 novembre presso Galleria Lampo a Milano. Che cosa racconta la mostra? Qual è l’atmosfera che hai voluto creare al suo interno?

Per rispondere mi ricollego a ciò di cui parlavo prima, poiché questa mostra rappresenta una naturale evoluzione delle mie opere precedenti. Ricordo che già due anni fa parlavo di immagini “scollate” su cui avevo iniziato a lavorare nel 2018. All’epoca erano principalmente esperimenti estetici, piacevoli da vedere ma privi di una riflessione più profonda. Negli anni, poi, ho sviluppato un significato dietro queste immagini, affinando il processo che mi ha condotto fino alle opere fatte e finite presentate in mostra. Qui l’immagine fotografica è ancora il punto di partenza, anche se non ha più il ruolo centrale di un tempo, come nei blocchi di cemento delle opere precedenti, dove essa, seppur nascosta, era protagonista.
Mi sto, infatti, progressivamente distanziando dall’idea di un’immagine tradizionale, per esplorare invece il tema della manipolazione e del cambiamento imposto dal tempo su tutto ciò che esiste. Questa mostra, ad esempio, si basa su due o tre immagini che, sebbene appaiano diverse, sono in realtà varianti delle stesse. Le “pelli” esposte sono create usando l’intelligenza artificiale di Photoshop, mentre i “nuclei” più astratti, in tonalità rosse, sono fotografie d’archivio scattate ai tempi dell’università, senza obiettivo, come parte di esperimenti. Non vogliono rappresentare nulla di specifico, ma piuttosto rimandare a qualcosa di indefinito, quasi a un terzo significato.
Ritornando alle “pelli”, esse sono concepite per suggerire una narrazione esterna al corpo, una superficie che, come la nostra pelle, invecchia e si trasforma, diventando una sorta di “biglietto da visita” che testimonia il passare del tempo.

Da quali spunti visivi sei partito per creare le opere presenti in mostra? Quali sono stati i riferimenti a cui ti sei ispirato?

Ricollegandomi a quanto detto prima, l’immagine della pelle che ho scelto di rappresentare nasce anche dal ricordo delle mani dei miei nonni. Entrambi vivono oggi in ospizio, e uno di loro, purtroppo, non è più lucido, restando solo corpo, ancora vivo ma assente. Ho voluto, quindi, portare in mostra questo senso di vulnerabilità e sofferenza. Questi sono stati i miei spunti.
Invece, le immagini astratte, di tonalità rossastra, evocano simbolicamente gli organi interni del corpo – un fegato, un rene, o ciò che lo spettatore immagina. Esse intendono rappresentare la parte interna di un corpo che si degrada, che mostra segni di rugosità e fragilità. Dall’altro lato, le “pelli” rimandano a qualcosa di più esplicito, un’immagine di corpi che, pur in vita, non conservano più la vitalità che ricordo da bambino.
In queste immagini è presente un richiamo alla sofferenza, evidente nelle tonalità bluastre che ricordano vene esposte, invecchiate, e che suggeriscono quasi un senso di malattia – una “malattia del vivere” che, inevitabilmente, porta a consumarci nel tempo.

Per concludere, stai lavorando a nuovi progetti? Che cosa ti aspetti nei prossimi anni?

Si, sto lavorando a molti nuovi progetti, e anche se questo mi crea agitazione perché devo ancora terminarne diversi, considero questa sensazione positiva e stimolante. Per esempio, uno dei lavori su cui mi sto concentrando adesso doveva, in realtà, essere incluso nell’ultima mostra. Fino al giorno prima ero convinto di presentarlo, poi confrontandomi con Domenico de Chirico, il curatore, ho deciso di trattenermi per evitare di esporre un progetto ancora incompiuto.
Attualmente, mi sto focalizzando molto sulla creazione di queste “pelli” attraverso l’elemento che le plasma: l’acqua. Sto, poi, lavorando con ampolle e strutture in vetro, un materiale che ho iniziato a studiare qualche anno fa e sui cui continuo a sperimentare, imparando come approcciarmi ad esso. Penso che per la loro particolare trasparenza, il vetro e l’acqua si armonizzino perfettamente e permettano di conferire alle “pelli” una qualità fluida e mutevole, senza una forma fissa e stabile.
Questo concetto di evoluzione continua mi riporta ad un mio progetto precedente, lo “Scrigno”. All’interno di questo lavoro l’immagine si degradava progressivamente, lasciando a ogni spettatore una percezione unica. Sto cercando, quindi, di portare questo principio nelle nuove immagini che creerò, le quali rimarranno in costante trasformazione. Questo sarà probabilmente il prossimo lavoro che presenterò: un’immagine in continua metamorfosi, dove la fotografia occuperà comunque una posizione centrale.
In risposta alla seconda parte della domanda, la mia aspettativa più concreta è continuare a trovare nuovi spunti di riflessione per alimentare il mio processo creativo. Spero, infatti, di mantenere l’energia e la motivazione per esplorare ciò che mi sta a cuore. La conseguenza di questo è riuscire poi ad avere un riscontro attraverso il pubblico.
Quanto ai risultati, credo che solo il tempo li possa dare.

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