L’esposizione rappresenta una delle due tappe dell’evento dedicato proprio a Luis Gómez Armenteros, protagonista in un’altra personale a Bergamo, presso The Place, grazie alla collaborazione tra l’istituzione milanese e U-ART-P di Bergamo. Entrambe le mostre avranno luogo fino al 18 aprile 2025. Ma in cosa ci si imbatte alla Fabbrica del Vapore? Comanche è una mostra che punta alla creazione di un “laboratorio progressivo”, uno spazio di riflessione per i visitatori, invitati a mettere in dubbio le proprie convinzioni sul ruolo dell’arte e dell’artista nella società dei consumi. Installazioni, opere site-specific, concettuali e allo stesso tempo tangibili. Luis Gómez Armenteros inizia il proprio percorso in Fabbrica nell’ambito di un prestigioso progetto di residenze d’artista coordinato proprio da Giacomo Zaza, il quale ha avuto la possibilità di seguire l’artista cubano e apprezzarne il lavoro e lo sviluppo dello stesso nel corso di questi anni. La residenza si intitolava “Futura” e rivolgeva il proprio sguardo all’arte intesa come risorsa con la quale interagire, deviare, mutare assieme. L’artista ha avuto quindi modo di confrontarsi con colleghi e altri partecipanti, in una riflessione collettiva che ha portato all’idea di realizzare un progetto espositivo dedicato.
La mostra si articola in undici opere che possono essere osservate e vissute senza un ordine predefinito. Comanche (Wild Horses) è anche il titolo di un’opera installativa del 2024 che vede un copricapo tipico degli indiani d’America che gira su sé stesso, sospeso nel vuoto. Un simbolo di una cultura depredata, che l’artista decontestualizza per accentuare la perdita di significato del “simbolo” nella società capitalistica e consumistica. Sempre a proposito di cultura, su una parete è esposto Estado Salvaje (Capital Cultural), murale che indaga la relazione tra un viaggio psichedelico e la parola estado. L’ambiguità di quest’ultima è la chiave dell’opera, parola che in spagnolo rimanda ad una condizione personale così come ad una coscienza di un’entità collettiva. Uno “stato” che viene rappresentato attraverso parole ondeggiate su uno sfondo colorato, tramite cui l’artista vuole evocare con sottile ironia un senso di disagio per la possibilità che hanno i media, i governi e gli artefici della propaganda in generale di modificare la percezione soggettiva dei popoli attraverso quella cultura che viene in qualche modo imposta, utilizzata come mezzo di legittimazione politica. Trata o tratado è un’intervista del 2008, durante la quale sono state sottoposte trentacinque domande a dieci giovani artisti cubani. Domande su un pensiero personale riguardo alle forme di manipolazione nel mondo dell’arte, con la maggior parte dei partecipanti che non ha voluto rendere pubbliche le proprie risposte, in una sorta di autocensura personale e collettiva.
Interessanti i due video nella sezione retrostante della Sala Bianca. In Letra Morta, sempre del 2008, una sequenza di estratti testuali tratti da manifesti delle avanguardie di inizio ‘900 scorrono in maniera ritmata sullo schermo. L’opera “astrae” le volontà espresse dagli esponenti di quei movimenti, mai realmente messe in pratica, idee plasmate dalla società del tempo e che, nella visione dell’artista, “Non sono state mantenute”, tanto che la riflessione metalinguistica porta ad interrogarsi non solo su quei testi specifici ma anche sulla loro applicabilità nel presente. Exclusion por silencio, installata in situ su una parete della sala, ricrea quella che dovrebbe essere una conferenza antropologica del XIX secolo. Una proiezione di diapositive che esaspera la tendenza delle istituzioni artistiche europee e dei loro rappresentanti di guardare alla cultura africana attraverso uno sguardo occidentale, senza prendere mai in considerazione quelle che sono le prerogative e le radici della cultura di cui si sta trattando. Tendenza diffusa ancora oggi, messa in discussione ma pur sempre attuale. Armenteros sottolinea questo meccanismo sviluppatosi a partire dal 1800 attraverso cui l’arte non occidentale ha iniziato ad interessare l’Europa e le nascenti grandi istituzioni, e lo fa con ironia e sagacia: le diapositive sono infatti solo crediti, titolo, descrizione e nome del proprietario. L’autore è stato invece estromesso.
Parlando del titolo della mostra, Armenteros aveva dichiarato: “Il mio lavoro è basato sul linguaggio, sulla cultura politica dell’ambiente artistico e su una narrazione molto autoreferenziale. Ho iniziato all’interno della corrente antropologica dell’arte cubana legata all’opera di Juan Francisco Elso, che è stato il mio maestro. Quando ho letto il significato etimologico della parola Comanche sono rimasto completamente affascinato. Questa parola rispondeva a molti dei requisiti che metto in atto nel mio lavoro. I Comanche parlano una lingua numica centrale che differisce solo leggermente dai gruppi Shoshone orientali. Comanche deriva dalla parola Ute che significa chiunque voglia combattere con me tutto il tempo (Powell 2014), ovvero qualcuno di litigioso, ma questa parola significa anche popolo. Vi era una sorta di pregiudizio nei loro riguardi da parte dei popoli che confinavano: li ritenevano dei bellicosi, ma in realtà si definivano come un popolo…” e aveva poi condiviso i motivi alla base della scelta del titolo: “Uno dei motivi per cui ho scelto la parola Comanche per il progetto in Fabbrica del Vapore è la condizione di transculturazione di questo popolo. Una condizione generata dall’incontro con la cultura occidentale. Ed è un imperativo nella mia pratica, in quanto meticcio…”
Immaginario collettivo, false verità e sociologia applicata all’arte. Nelle restanti opere in mostra, Armenteros si concentra su un linguaggio dal forte impatto visivo. Lo vediamo ad esempio in Demo, installazione in cui una serie di riviste d’arte, che dovrebbero guidare i lettori verso la scoperta di ciò che c’è di nuovo sulla scena, si divorano a vicenda e finiscono per specchiarsi da terra. Una torre caduta che rappresenta l’autoreferenzialità della critica d’arte, i suoi meccanismi corrotti, oltre che la naturale fine di questi mezzi di comunicazione nella società in cui prevale sempre e comunque il più forte, in cui sopravvive chi è squalo e fagocita il prossimo, anche e soprattutto nell’informazione. Sparring Partner è forse l’opera più concettuale in mostra, una borsetta Louis Vuitton contraffatta che l’artista cubano aveva acquistato da un venditore ambulante africano a Madrid. La borsa, posta su di uno scaffale asettico e isolata sopra una mensola centrale, riporta la scritta in portoghese “A luta continua, a vitoria è certa”, un moto che rimanderebbe all’attivismo politico ma che Armenteros utilizza ancora una volta in chiave ironica. Posizionata agli albori dell’azione performativa di fronte alla sede della Galleria Continua de L’Avana, l’artista l’aveva poi fatta entrare nel circuito del commercio di strada cubano. Un’azione simbolica che evidenzia le contraddizioni di un sistema, quello dell’arte e del lusso, che celebra l’esclusività in una società in cui le disuguaglianze regnano e portano popolazioni allo sbando. Nella sua collocazione in fabbrica, Sparring Partner si fa simbolo ancor più evidente della lotta tra artista e sistema, con il primo che è quasi sempre condizionato da logiche pseudo-promozionali e la sua vena creativa tarpata, assoggettata alle grandi firme, alle istituzioni, al mercato. Ricomincerà l’arte ad essere protagonista o dovrà continuare a ricoprire un ruolo subalterno in favore dello sviluppo della pubblicità, delle nuove tendenze, di ciò che permette di creare capitale?
Vi sono infine alcune serie fotografiche, video e opere realizzate con media tra i più disparati che sottolineano l’attenzione di Luis Gómez Armenteros nei confronti del problema della mercificazione dell’arte e della perdita di valore di simboli, metodi di comunicazione, media artistici che diventano incomprensibili nella società del tutto e subito. Una mostra che riporta in auge la centralità della ricerca e della collaborazione nel concepimento di opere con un immaginario visivo d’impatto e un significato di spessore (il progetto espositivo comprende anche una piccola parte della residenza svolta dall’artista in Fabbrica nel febbraio 2025). Che ne sarà dell’artista in un sistema dell’arte contemporaneo sempre più frammentato eppure elitario, in cui “un ragazzo confuso” – come viene definito Armenteros a inizio carriera da un artista nel corso di una residenza – spera ancora di rendere il processo artistico un mezzo di resistenza e riflessione nell’epoca dell’élite e dell’establishment culturale? Ai posteri la sentenza.







