ARCO Lisboa
Salvo Bonnici

Lo sguardo umano: Salvo Bonnici

Davanti a un’opera d’arte, non possiamo rimanere neutrali. Se è un’opera che ha a tema la violenza, non siamo mai solo le vittime, né solo i persecutori. La reinventiamo a ogni nostro sguardo: come recita il titolo dell’ultima mostra di Salvo Bonnici, organizzata dall’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, “Io siamo noi” (Galleria Civica d’arte contemporanea di Palazzo Moncada, Caltanissetta, 17 dicembre 2022-28 gennaio 2023, a cura di Antonio Vitale). È proprio questa coralità, questa partecipazione universale al dolore causato dalle guerre del passato e del presente, la “speranza nella ferita” cui si riferisce il sottotitolo dello stesso evento; la possibilità, che l’arte concede a chi la guarda, di riessere umani.

Ai nazisti che, in visita al suo studio parigino, gli chiedevano tra la minaccia e lo scherzo se Guernica, il dipinto dell’esposizione universale, l’avesse fatto lui, Picasso rispose: “no, l’avete fatto voi!”. In che modo la storia incide sulle tue opere, a cominciare dalla scelta dei soggetti?

Tra le pagine della Storia quello che cerco è “lo sguardo umano”, e non il fatto politico in sé, che reputo marginale rispetto al mio interesse; il modo in cui l’essere umano diventa protagonista e ideatore di espressioni, azioni e comportamenti singolari e peculiari. La Storia ritengo sia, in massima parte, l’immagine infinita dell’Uomo semplice, spesso purtroppo destinatario dell’ignoranza e dell’arroganza dei potenti, che lotta ogni giorno (senza armi e senza offesa), che capitalizza e custodisce le gioie semplici, che sa accettare, che sa offrire ma che sa essere, anche, portatore integro, fermo e fiero della bellezza del proprio Pensiero.

Non mi riferisco, ovviamente, solo alla grande storia. Spesso ciò che più conta è il quotidiano.

Inevitabilmente siamo figli del nostro tempo e della vita che ci scorre vicino e che ci dà segni e segnali più o meno forti, lasciando tracce più o meno importanti e significative dentro ciascuno di noi. Per esempio, nella mia opera dal titolo “L’Ultimo pasto”, apparentemente una natura morta, parlo invece del terremoto del Belice, descrivendo, con il mio vocabolario espressivo, una tavola da pranzo ancora abitata da un possibile consueto quotidiano cibo, ombra però solo di una possibile vicina trascorsa presenza umana, della quale si percepisce, adesso, l’assordante assenza nel compimento di un destino tragico ed accaduto. L’ambiguità della scena descritta consente al fruitore di entrare in risonanza tra ciò che vede e ciò che sente, rendendo ciò che è nel quadro anche, potentemente, altro.

La storia è un atto di fede nel passato, nella sua possibilità di influenzare il presente e anticipare il futuro. Qual è il tuo rapporto con la fede, intendendo la parola anche in un senso più strettamente religioso?

Nella mia vita da “strutturalmente” curioso e dopo tanto cercare, sono approdato sulla spiaggia del pensiero di ritenere che anche l’ateo più ateo abbia o, a un certo punto della vita, senta il bisogno di credere in un “Dio”. Ho navigato all’interno di barche di credo diverso, ma alla fine mi sono risolto in un luogo di Luce. Credo.

“Astratto e figurativo”, mi hai confidato, “sono termini che andrebbero aboliti”. Potresti spiegare meglio il senso di questa affermazione?

“Il figurativo” è in un certo qual senso l’elogio del reiterabile in quanto attiene, spesso, ad una maniera comune di vedere, leggere e riconoscere parte del mondo fisico, tattile e oggettuale che ci circonda. La distanza però da un modello unico, quasi accademico, di vedere ad esempio un’anatomia umana, può rendere il testo espressivo di un artista figurativo prepotentemente narrante ed emotivo nella seppur, o grazie a, citazione del vero.

“L’Astratto e l’informale” raccontano un mondo poetico e comunicativo libero da schemi, e apparenti confini, che a volte potremmo considerare come testi o tasselli dell’infinitamente piccolo derivante, ad esempio, da un figurativo o l’estremizzazione di un infinitamente grande reso metafisico. 

In quest’ottica quello che noi chiamiamo astratto potrebbe essere una porzione di figurativo o, anche, il figurativo essere parte di un informale in cui il caos dell’universo ingloba ogni cosa.

Tutti questi linguaggi sono, allo stesso modo, potenzialmente capaci di essere espressione di un Bello da cui far scaturire delle emozioni, un piacere, una comprensione razionale o istintiva che alcuni amano chiamare “chimica”, ma che a me piace pensare come “una felice fisica dell’incontro” verso una forma di armonia.

Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?

Nella lunga linea dei miei anni ho conosciuto e studiato molti artisti e più volte conoscendo, mi sarebbe piaciuto dimenticare la storia dell’arte per rendere sempre nuova ogni esperienza di contatto, ideazione o fruizione. Mi sento un tardo medioevalista in attesa di un imminente rinascimento delle coscienze. Un periodo di embrionali fermenti dove l’uomo era “libero” di creare, ma per farlo doveva lottare contro i canoni e le leggi dello Stato e della Chiesa. Ad esempio, Hieronymus Bosch, nel crepuscolo del medioevo, è stato un vero guerriero nella sua istrionica capacità caustica di mettere in scena i conflitti dell’Uomo in relazione, ad esempio, al pensiero religioso; ed era parimenti avanti come lo sono stati nei secoli successivi, ad esempio, i futuristi, gli architetti, i matematici e gli astronauti. Ma tutto ciò che è stato, e che è, ebbe inizio con l’Uomo primitivo.

E tra i contemporanei, hai con qualcuno un rapporto speciale?

Tra i contemporanei, coetanei del mio tempo presente, amo avere rapporti speciali con la “gente”, con tutta la gente che ho la fortuna di fermare nelle mie giornate e con cui posso stabilire e scambiare, nei casuali o voluti incastri, sguardi, passioni, fragilità, sogni, impedimenti, superamenti; tutto nell’ottica di rendere unico e speciale ogni giorno. 

Che ruolo svolgono, nella tua pratica, il disegno e il colore?

Il disegno è un luogo magico: è contenuto e contenitore. Esso rappresenta, a volte, la geografia segnica dell’idea pittorica assieme al colore e alla materia. Ad esempio, nell’opera “I luoghi della memoria”, si assiste ad una fusione intima, quasi carnale, tra disegno, garze, pittura, stoffe, carte e materia varia per giungere ad opere che fino a quel momento non c’erano mai state e che si muovono, ed hanno un proprio respiro ed animano lo spazio e non solo quello telaceo, ma anche quello circostante. In ogni opera, come in tutte, c’è parte di me: profumano del mio più intimo e segreto pensiero. 

Molti tuoi dipinti sembrano fatti per essere toccati. La pittura chiama la scultura?

La mia è materia variamente dipinta sulla superficie che corre tesa su un telaio o che afferma la sua terza dimensione nel corpo di una scultura o installazione. Le mie opere possono, al di là dello sguardo e della lettura, essere toccate, odorate, per un pieno coinvolgimento sinestetico. Su alcuni miei lavori, degli anni ’70, applicavo dei fili sottilissimi di nylon, unitamente a degli spessori di materia molto a rilievo, perché anche un ipovedente potesse trarne, attraverso un sensibile tatto, un godimento per la mente nello svegliare, scoprire o offrire inediti scenari.

Come definiresti la pittura, a cominciare dalla tua? 

Non amo molto parlare della mia pittura essendo, per quanto mi riguarda, un’espressione molto intima e personale; ovvero potrei dire che essa è nuda, è muta e con le guance arrossate di pudore. La pittura per me rappresenta, da sempre, uno straordinario percorso di scoperta e di conoscenza di me stesso; è dunque, un viaggio interiore per me, ed è un momento ulteriore per il fruitore: uno specchio dove guardarsi, una mano da stringere, una carezza da sentire sulla pelle.

Quale destino intravedi per le arti figurative tradizionali nell’epoca dell’intrattenimento digitale?

In un’epoca in cui ogni cosa corre più veloce del pensiero che l’ha generata, ritengo però che il destinatario delle Arti Figurative Tradizionali sia lo stesso di sempre, ritrovandosi in una fetta della società che continua ad amare andare al cinema, tuffarsi tra le pagine di un libro, viaggiare tra le note di una musica, perdersi tra le parole di quattro amici al bar. Ritengo che ci sia spazio per tutto, e forse quello che possiamo chiamare “tradizionale” suona alle orecchie delle nuove generazioni come interessante, curioso, quasi timidamente trasgressivo; e dunque intravedo la possibilità di trarne ancora inattesi benefici e sviluppi anche laddove sembra si spengano delle speranze. 

Lo strumento digitale è, e deve essere, un amico dell’Arte nella misura in cui esso è un “solleticatore” d’interesse: bisogna però stare attenti a che il mondo si continui a cercare tra le strade, nei musei, nei teatri ed ovunque altrove, non solo dietro la piccola misteriosa finestra di un monitor che guarda nelle nostre case.

Che cosa pensi dell’arte italiana di oggi?

Oggi respiro una grande confusione, poca cultura e molto culturismo. L’arte italiana, già da un po’ di tempo guarda, e a volte copia, modelli stranierei perdendo di vista l’autenticità e il valore delle nostre radici culturali ed artistiche. Se siamo, come si dice, figli del nostro passato, mi sento felice e fiducioso per il futuro. Siamo riconosciuti in tutto il mondo per quello che eravamo e siamo stati capaci di fare, e forse per questo sentiamo un po’ il fiato sul collo, ma dobbiamo continuare ad essere testimoni – perché sappiamo farlo – di nuova Bellezza per affermare che passato e presente renderanno la nostra amata Italia un luogo futuro ancora più bello.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Continuo a cercare ogni cosa che non conosco con fame: studiare, guardare, sognare, perdermi, amare e in questo viaggio avere a volte una pallida intuizione circa il mistero della vita e della morte, della luce e del buio.

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