Matteo Bergamini
Matteo Bergamini

L’involuzione del pensiero libero: Matteo Bergamini

“L’arte contemporanea sembra aver messo da parte i temi universali dell’esistenza e della spiritualità, ma anche quelli di una oggettiva critica sociale, e della ricerca di verità”. E ancora: “L’arte, nel 2020, ha seguìto i passi del giornalismo mainstream, associandosi a movimenti politici e ponendosi come propaganda visiva, auto-annullando al sua capacità di poiesis, di creazione poetica, di sguardo dell’altrove”. Basterebbero questi frammenti de L’involuzione del pensiero libero. Arte e giornalismo all’epoca del non detto di Matteo Bergamini (Postmedia, 2021, euro 12), che deduco dalla quarta di copertina, per intendere il suo spirito “incendiario”. Discuterne a tu per tu con l’autore – critico, giornalista, curatore e direttore responsabile di exibart – era il minimo che potessi fare.

Il tuo L’involuzione del pensiero libero, titolo che non lascia molti dubbi quanto al giudizio sull’oggi, ha un sottotitolo altrettanto tranciante: arte e giornalismo all’epoca del non detto. Che cosa intendi per “non detto”?
Chiunque abbia avuto una qualsiasi idea divergente rispetto ai fatti dell’ultimo anno e mezzo, anche supportata da dati scientifici, è stato completamente ignorato dai media, impegnati al mantenimento dello status quo del terrore. Chiunque abbia osservato la realtà sotto un altro punto di vista è stato identificato come negazionista, complottista, fascista. Stiamo attraversando un periodo a dir poco eccezionale, in cui è davvero aperta la possibilità di reperire conoscenze e informazioni. Eppure, se ci pensi, per un intero anno e per i molti che l’hanno preceduto, la traiettoria del “detto” è stata a senso unico. Il “non-detto” dovrebbe essere l’altro pensiero, quello della diversità, della non-normatività che viene blaterato dalle nostre intellighenzie e dalle agende politiche, ma che all’atto pratico magicamente scompare perché non funzionale al conformismo sociale, al pensiero unico. Il “detto” appartiene alla volontà di inquadramento e annientamento di ogni reale alterità, di qualsiasi “antagonista”. Che appunto è negazionista, complottista, fascista o, molto più semplicemente, non allineato, non contemporaneo.

Cancellazione e censura preventiva: due facce del medesimo potere?
Per certi versi penso che la censura sia “utile”: occultando una parte, ecco che l’attenzione si fa più presente. E poi la censura ha sempre un tempo limitato: pensa a quante immagini, canzoni, libri, film, un tempo vietati, censurati o tagliati oggi sono visibili o ascoltabili per intero. La censura appartiene al tempo; la cancellazione è un atto definitivo: è iconoclastia assoluta per quanto riguarda le immagini, è totalitarismo quando si tratta di società.

È davvero opportuno, specie in circostanze come le attuali, che vedono le libertà individuali schiacciate “legittimamente” dai protocolli scientifici e dalle prescrizioni sanitarie, “disobbedire agli ordini”?
Chi schiaccia la libertà lo fa sempre con l’idea di “legittimare” qualcos’altro o, peggio ancora, in nome di una “giustizia”, di un codice; pensa se nessuno avesse, nella storia dell’ultimo secolo, disobbedito agli ordini: forse non avremmo avuto l’Impressionismo, né Pasolini, né i partigiani. Sono sempre stato scettico nei confronti della realtà raccontata attraverso i numeri, figurati nei confronti di chi “legittimamente”, “per il nostro bene” o in nome di protocolli ben più politici che scientifici aspira a prendere il controllo delle nostre vite…

In che modo la rivista di cui sei il direttore responsabile cerca di reagire al rumore mediatico di fondo?
Vorrei dire che si prendono le distanze, ma come ben sai questo rumore di fondo è continuo e ovviamente avvolge anche l’arte. Evitarlo è impossibile, ma si può cercare di attraversarlo scegliendo un’orientazione che permetta di andare avanti senza finire assordati. Mi piace sempre citare quel film di Mazzacurati che si intitola “La giusta distanza”: in mezzo a un mondo di false testimonianze, di menzogne, di esaltazioni puerili, sfoghi unilaterali, isterie, toni paternalistici, caccia alle streghe e chi più ne ha più ne metta, porsi come osservatori a bordo del ring forse è l’unico modo per avere una panoramica del reale un po’ meno drogata…

Come immagini la figura del giornalista d’arte nella “società dello spettacolo” e come la interpreti personalmente?
Sono sempre stato ossessionato dalla società dello spettacolo, o meglio dai suoi meccanismi di auto-determinazione e accettazione condivisa. Lo “spettacolo” etimologicamente è qualcosa che si guarda, che accade e svanisce. La società dello spettacolo vive di menzogne, “e la dichiarazione dell’ultima è anche la prova della precedente”, scrivevano i Tiqqun. L’arte è menzognera sì, ma non può svanire perché racconta le illusioni della vita e lo fa a sostegno degli uomini. La società dello spettacolo, invece, lo fa a discapito. Come io interpreto questo ruolo? È difficile dirlo… direi in maniera non compiacente.

E la figura dell’artista?
Quando gli artisti seguono la massa dello spettacolo e della politica producono solamente messaggi che alimentano la propaganda. È sempre successo, sempre succederà: sempre di più credo sia necessario, per l’arte, riappropriarsi di temi universali e in maniera universale, perché non c’è alcuna speranza di “eternità” – ammesso che ancora possa esistere questo desiderio, ma mi pare stia tornando il tempo – nel farsi replicanti della cronaca e eco dei personaggi che a turno urlano sempre su quel ring che dovremmo guardare con distanza.

Hai scritto che “oggi, probabilmente, il vero medium incendiario, l’unica soluzione rimasta è la pittura”. Per quale ragione?
Penso alla celebre frase di Gino De Dominicis che diceva che l’arte più contemporanea è l’arte anti-diluviana per il suo essere libera dai dogmi e dalle imposizioni a cui ci ha obbligato la storia, e lo spettacolo. La pittura, il medium più antico dell’arte, quello che ha subìto innumerevoli funerali e “fini”, è ancora uno strumento di lotta, forse il più tagliente, appunto, per il suo essere sempre un po’ in ritardo sul contemporaneo, citando Agamben.

Un aspetto che mi ha piacevolmente colpito del tuo libro è la capacità di parlare, senza tecnicismi, tanto di arte quanto di altre discipline. Come se – incredibile dictu – la cultura fosse una.
Davvero pensi sia incredibile? [ride]

Ovviamente no! A parte gli autori che hai citato, da Jarman a Tondelli a Pasolini, ti sovviene di qualche altro modello per ripensare la contemporaneità?
Mi viene in mente che, nell’ultimo anno e mezzo – sempre per tornare dove il dente duole – il dibattito intellettuale è stato completamente ignorato. Non che prima fosse attivo, ma almeno non era negato. A nessuna voce è stato dato spazio e, quelle presenti e vagamente fuori dal coro (penso ancora ad Agamben, dalle colonne di Quodlibet), sono state zittite o denigrate. Non abbiamo avuto appigli di critica sociale, l’uomo occidentale è stato lasciato solo. Non abbiamo avuto a disposizione un solo pensiero come antidoto contro la paura, lo smarrimento, la rabbia, ma solo metodi di distrazione e consumo di massa. Difficile ripensare il presente nel mezzo della tempesta mediatica perfetta…

Un autore vivente “reazionario” a sufficienza da meritarsi il tuo interesse?
Ci tengo a precisare che non intendo “reazionario” come aggettivo sinonimo di violento o irrispettoso: questi sono i valori che hanno ampiamente dimostrato appartenere ai democratici di ogni latitudine che hanno promulgato le attuali situazioni dittatoriali. Reazionario, per quanto mi riguarda, è chi riesce a ripensare e a sostenere la vita, arginando l’avanzata dell’oscena “nuova normalità”, la nuova imbecillità, o lo stato di paura spettacolarizzata.

“Andrà tutto bene”? [ride]
“Ma tu sei felice?”

Dell’intervista? Direi proprio di sì.