Nel 2014, Bouchra Khalili realizza un film digitale dal titolo Garden Conversation. Partendo dall’ incontro del gennaio 1959 al Cairo tra Ernesto Guevara e il vecchio eroe marocchino Abdelkrim Al Khattabi, 55 anni dopo, l’artista si interroga e interroga i protagonisti della ripresa circa l’eventuale dialogo, nel presente, dei fantasmi dei due rivoluzionari in merito alla lotta di liberazione nazionale, conservando ognuno la propria lingua, in un luogo intrinsecamente eterotopico come quello del giardino.
Gli spettri dei due leader, oggi, di cosa parlerebbero? Il progetto artistico di Khalili, a tre anni dall’inizio delle Primavere arabe, attraverso la rievocazione poetica e immaginaria, tenta di rintracciare se il corpo non più vivo rimane comunque come presenza solida e piena, nella Storia, nelle storie della gente.
Napoli, la città delle Quattro Giornate, luogo della micro-resistenza quotidiana, ha anch’essa i suoi giardini e i suoi ribelli. Il verde è nascosto, negato alla vista, resistente agli occhi fotografici dei turisti. Queste fresche oasi sono dono e intimità della gente che con cura le annaffia e vi carezza ogni giorno fiori e foglie. Anarchia verde, incompatibile con il caos metropolitano, è vero e proprio patrimonio silenzioso, oracolo di chi umilmente si pone all’ascolto e ne interroga la lunga storia. Dieci anni dopo il lavoro di Khalili – senza che esso sia riferimento per i curatori della mostra, quanto piuttosto una mia suggestione – Lettere intorno a un giardino, a cura di Marta Ferrara e Mario Francesco Simeone, induce ad una nuova riflessione sulla contemporaneità a partire dalla sfera emotiva e complessa dell’artista. Il giardino nascosto tra le pietre di Palazzo De Sangro di Vietri è il teatro della relazione tra i dieci artisti in mostra, nati tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, formati e attivi a Napoli e in Campania. Lo spazio della Galleria Alfonso Artiaco, a sua volta, come un eco che rimbalza tra il vuoto della valle e le pareti rocciose della montagna, riflette la struttura comunicante del giardino con cui ne condivide l’edificio architettonico. Tale suddivisione degli spazi fa sì che la mostra sia organizzata intono a un’ampia sala da cui si piò accedere alle altre, un’enfilade architettonica formalmente molto simile al rapporto continuo e pluridirezionale che esiste tra le piante nei giardini.
Al centro dell’esposizione capeggia, leggera ma imponente, con i suoi 3,5 m di altezza, la scultura Qui, ci deve essere stato per aria un cielo (2024) dell’artista casertana Maria Giovanna Abbate. I rami in alluminio, attraversabili, rimandano alla ritualità voodoo, materializzandosi come feticcio esperienziale, tanto per le popolazioni del Sud globale, quanto per i contadini e le genti del sud Italia. Abbate, anche in questa occasione, torna velatamente a parlarci delle contraddizioni in seno allo sviluppo delle metropoli come Napoli. Città porose, estese a dismisura, lasciano indietro le province e i paesi su cui l’artista casertana ha lavorato lungamente tramite progetti di arte partecipativa. È il caso di Oh, Ah, Si! (dal 2021) sul fiume Volturno. Attorno alla scultura, sulle pareti della stanza centrale (la terza sala in pianta), vi sono ben dodici opere. A partire dalla sinistra dell’ingresso, incontriamo due sculture in zucchero e resina di Carmela De Falco dal titolo dentro, fuori n. 1 (2024) e dentro, fuori n. 5 (2024). Calchi positivi di zerbini, le opere si pongono come metafora dello scambio tra interno ed esterno, oltre che tra l’ospite e l’inquilino a cui si regala lo zucchero in segno di buon augurio e pronta guarigione (a Napoli e in molte città del sud questa è tradizione comune). Accanto è Chiarore (2024) di Paolo Bini. Una piccola tela, in acrilico e mica su strati di nastro-carta, rappresenta il chiarore della luna che si rispecchia su un mare dalla trama irregolare ma ritmata. Sulla parete interrotta dai balconi che affacciano su Piazzetta Nilo, da destra, vi è il dittico fotografico Senza titolo (2024) di Paolo Puddu. Inserite in uno sfondo blu in cotone, due stampe presentano due punti di vista su alcune palme dove l’artista napoletano interviene graficamente restituendo un’estetica volta a suggerire nuovi sistemi spaziali e concettuali. Questo luogo indefinito diviene qui riferimento senza tempo, rimando di qualcosa di familiare, difficile da nominare ma emotivamente universale. Nessuno sa dov’è, ma a tutti sembra esser già passati di lì. Verso sinistra, c’è Pianta velata (2024) di Andreas Zampella. Olio su stoffa, l’artista salernitano performa una natura morta. Al centro della tela è il cadavere del giardino: una pianta nel vaso su un tavolo. Zampella, la cui poetica da tempo indaga il rapporto tra realtà e rappresentazione nella società, ammettendo il fallimento della comunicazione nella contemporaneità, dichiara la fine del senso primo ed ultimo del giardino: l’interruzione della relazione e dello scambio. “Pianta velata” ha una certa assonanza pittorica con “pianta avvelenata”. In contrapposizione e accanto a questa morte, vi è l’opera di Gianmarco Biele. Il trittico in carta giapponese, Fiori blu (2023), è un frammento di costellazione di luce espansa puntinato da sensibili fiori lapislazzulo, il colore più raro in natura e proprio per questo enigmatico e affascinante. Seguendo l’andamento della parete, troviamo una fotografia e un olio su tela di Nicola Vincenzo Piscopo, dal titolo Il delitto perfetto (entrambe 2020). Iperrealiste, le immagini sono veri e propri indizi polizieschi, indizi e inizi di un’assenza premeditata e immediata. L’arte di Piscopo, ancora una volta, si prende gioco dell’osservatore ironizzando sulla nostra incapacità percettiva nel distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione, il virtuale dal reale. Costringendoci ad affinare lo sguardo, Il delitto perfetto (2020) dichiara la necessità di tornare a dipingere per promuovere un nuovo sguardo sul mondo: un nuovo modo di vedere che in fondo suppone un nuovo modo di essere. Essere in Fuga (2024) come dichiarato dal titolo del filmato di Nina Jonsson Qi in uno schermo da gaming. L’artista svedese ci dona in formato digitale la memoria di sensazioni raccolte all’Orto Botanico, perdendosi tra le piante, i suoni e gli odori di questo luogo magico nel cuore di Napoli.
Le ultime tre opere della stanza sono Dedicato a Miguilim I (2024) e Dedicato a Miguilim II (2024) di Selene Cardia e WHERE EVERYTHING IS EXACTLY AS YOU WOULD LIKE IT TO BE (2024) del collettivo dump. Le tele dell’artista sarda sono dedicate a Miguilim, il protagonista dell’omonimo romanzo di João Guimarães Rosa. La trama pittorica, ritmata da visibili pennellate di colore verde, è associata da Cardia al movimento lento della vita nelle campagne della Sardegna, una quotidianità profondamente ripetitiva in cui, tuttavia, nessuna azione è mai del tutto identica a se stessa. La storia di Miguilim, in questo senso, diventa una metafora del fare pittura e dello sguardo insaziabile dell’artista. Nel romanzo dello scrittore brasiliano, il protagonista percepisce il mondo esterno come distante e, al contempo, ne avverte le implicazioni emotive. Il romanzo si conclude quando Miguilim scopre di avere una forte miopia e, quindi, decide di indossare degli occhiali. Improvvisamente, il mondo riacquista i suoi contorni; eppure, l’inadeguatezza e la nostalgia per ciò che gli è vicino e lontano continueranno a pesare sulla sua esistenza. In fondo, parafrasando Alberto Giacometti, cos’è la pittura se non un continuo scacco?
In dialogo in basso, l’intervento effimero site specific del collettivo dump, WHERE EVERYTHING IS EXACTLY AS YOU WOULD LIKE IT TO BE (2024), richiama le decorazioni dei codici miniati che andavano a impreziosire e a definire la connessione tra parola e immagine. Il pigmento non è in alcun modo fissato al pavimento da un collante, dunque, già durante l’inaugurazione, i visitatori meno attenti hanno calpestato l’opera lasciando qua e là tracce di colore azzurro nella sala. Tuttavia, ringraziamo questo pubblico, perché ne seguiremo le impronte. Entrando nella stanza a destra, il quinto spazio della Galleria Alfonso Artiaco, incontriamo la serie dei Paesaggio (2024) di Gianmarco Biele e Dama-scena (2024) di Nina Jonsson Qi. La sequenza di Biele è composta da sei piccoli paesaggi in polvere di marmo e resina. Essi sono degli skyline più o meno nitidi di ignoti luoghi e, anche stavolta come per Senza Titolo (2024) di Paolo Puddu, paradossalmente sembra di averli già visti, avvertendoli come luoghi familiari. Di fronte, c’è il quadro di Nina Jonsson Qi. Dama-scena (2024) è un frammento di tappezzeria da parete in damasco che costringe l’osservatore ad avvicinarsi all’opera fino a sfiorarla per sentirne l’odore di rosa damascena, fiore protagonista della stampa sia per quanto riguarda l’occhio (la rosa è visibile sulla tela) che l’olfatto. Accedendo all’ultima stanza troviamo sulla sinistra due delicatissimi disegni di Maria Giovanna Abate: Loa Racine I (2023) e Loa Racine II (2023). Questi tratti delicati, apparentemente astratti, sono gli studi preparatori alla scultura che ha inaugurato il percorso di Lettere intorno a un giardino. I Lwa, chiamati anche Loa, sono spiriti della religione diasporica africana, del Voodoo haitiano e dominicano, evocati anche da alcune comunità migranti accanto al fiume Volturno. I Loa fungono da intermediari tra l’umanità e una divinità creatrice trascendente. I popoli voodoo credono che esistano oltre mille loa, di cui ognuno ha una sua personalità ed è associato a colori e oggetti specifici. Tra questi Racine è la famiglia di spiriti Loa legata alle radici, caratterizzata da un temperamento dolce e “freddo”, in contrasto con i Petro loa, che sono considerati irascibili e “caldi”. All’animismo calmo di Loa Racine si oppone il dinamismo irrequieto di Risveglio con limoni (2023) di Andreas Zampella. Dominando la parete centrale della sala, la tela rappresenta un risveglio dai toni aranciati, composto da un paesaggio surreale di un letto disfatto e un cuscino sospeso in aria. Tutto è in attività: i limoni che fluttuano oltre le pieghe delle lenzuola e il cucino scagliato verso l’alto. Tuttavia, ci si chiede dove sia l’umano al di là del movimento bloccato nel colore ad olio delle cose. Chi vi ha dormito è appena andato via o è in procinto di tornare per mettere in ordine? Saranno forse stati gli spiriti Loa.
Ripercorrendo a ritroso le stanze, giungiamo all’ultimo spazio delle enfilade in cui torna le serie di Cardia con Dedicato a Miguilim XIX (2024) e Dedicato a Miguilim XX (2024), stavolta dai colori terrosi. Di fronte, la serie Monti Privilegi (2020) di Nicola Vincenzo Piscopo dove, con l’espediente del paesaggio, vengono presentati otto ritratti e un autoritratto, che, invece di inquadrare i volti, rappresentano le pance dei soggetti ritratti. Bizzarro modo di interpretare il corpo, senonché ad oggi il piacere dello stare insieme è ridotto ad un tavolo di qualche localetto gourmet per postare foto di cibo e sentirci più integrati: tragico epilogo. Procedendo verso l’uscita, o l’entrata, come volete, nella penultima stanza troviamo Aria (2024) di Nina Jonsson Qi e Out of joint (2024) di Carmela De Falco. La prima è una pellicola polaroid su cui l’artista svedese è intervenuta con una matita confinando le informi forme ibride. La seconda è un’istallazione murale realizzata per mezzo di nastri adesivi fisioterapici. Le forme sinuose e colorate di De Falco, che rimandano a rami sospesi a mezz’aria, inscenano una falsa ed illusoria tridimensionalità che sfonda con clemenza le pareti della sala. La trama sobria funge da sfondo alla scultura 60 secondi di bianco (2024) di Paolo Puddu in acciaio e poliuretano espanso.
Nell’ultima sala troviamo Ginestra (2024) di Andreas Zampella. La scultura rimanda all’immagine dell’omonima pianta qui realizzata con i tipici tappi per le orecchie di colore giallo infilati in fil di ferro. A chiudere o a introdurre alla mostra, è l’opera pittorica, Attesa (2017-2024), di Paolo Bini. La tela, su cui l’artista è intervenuto più volte, è composta da una griglia dipinta che difficilmente riesce a disciplinare la potenza espressiva dello sfondo, realizzato mediante pennellate verticali in acrilico. Il colore, talvolta, sembra vincere sugli incastri geometrici, negandoli.
Lettere intorno a un giardino, come si deduce dal numero di opere esposte, è una mostra importante sia dal punto di vista quantitativo che per ciò che concerne la relazione tra poetiche tanto diverse quanto simili concettualmente. Ogni lavoro è infatti una lettera, un linguaggio personale che racconta un’esperienza del mondo, del piccolo mondo verde, nascosto tra le mura della città partenopea. Scambi epistolari di cui conosciamo i mittenti e verso cui dovremmo porci dome destinatari. Risuonano le parole di Arendt quando si domanda il senso ultimo della politica: «solo da coloro che riescono a sopportare la passione per la vita nelle condizioni del deserto, ci si può aspettare che raccolgano dentro di sé quel coraggio che ha la radice dell’agire, di tutto ciò che fa sì che l’uomo diventi un essere agente. Per di più le tempeste di sabbia minacciano anche quelle oasi nel deserto senza le quali nessuno di noi potrebbe resistere. […] Le oasi sono tutti quegli ambiti della vita che esistono indipendentemente, del tutto in parte dalle condizioni politiche1». Così l’arte, così i giardini.
- H. Arendt, Che cos’è la politica?, Einaudi, Torino 2006, p.144