Le creazioni di Leandro Erlich sono strutture architettoniche che funzionano come macchine ottiche che mettono in discussione il dato sensibile del mondo.
Con la mostra a Palazzo Reale di Milano, Erlich ha scelto l’Italia come luogo d’elezione per la presentazione dell’ambizioso progetto che, tramite la messa in scena di spazi di nuova percezione, stimola la riflessione e la contemplazione.
La fascinazione nei confronti della sua opera da parte di un ampio pubblico, che va al di là dei soli addetti ai lavori, risiede nella sua necessità di rivolgersi direttamente allo spettatore, mettendolo di fronte a quesiti, coinvolgendolo attivamente fino a esporlo universalmente.
Le 19 opere in mostra dimostrano che, liberandosi dalle nozioni acquisite con l’esperienza, ognuno di noi può sperimentare una propria dimensione, una nuova visione non offuscata: l’avvento di un nuovo tipo di mondo. Ogni lavoro è un evento che riguarda l’osservazione di piccoli fenomeni banali che, trasferiti nello spazio museale, acquistano una nuova condizione. L’opera stimola nuovi comportamenti collettivi e trasforma le abitudini automatiche in momenti di rivelazione, disagio e riorganizzazione.
Quando poi si tratta di comportamenti sociali, Erlich diventa un vero e proprio agente di disturbo. Allo spettatore è richiesto un impegno e un’azione partecipativa per svelare ogni opera, che volutamente suscita, come prima reazione, un senso di familiarità rispetto al quotidiano, successivamente si insinua anche un senso d’incertezza: l’attenzione richiesta al pubblico rappresenta la materia prima per Leandro Erlich e solo il pubblico ne completa l’opera.
Le installazioni di Erlich nei musei di tutto il mondo hanno svelato livelli di lettura stratificati e complessi. Il linguaggio dell’interattività, unito alla portata dei social media, permette alla sua azione artistica di espandersi ben oltre le mura delle istituzioni. Erlich presenta immagini esplicite di una condizione attuale esortando così il visitatore a riconoscere il proprio squilibrio, l’esclusione e l’auto fascinazione.
Il percorso espositivo inizia a sorprendere già nel Cortile di Palazzo Reale, dove è allestita la monumentale installazione site-specific Bâtiment, creata nel 2004 per la Nuit Blanche di Parigi. Da allora è stata presentata in tutto il mondo, adattandosi alle caratteristiche dell’architettura locale. Il meccanismo espositivo è tuttavia sempre lo stesso: appoggiata orizzontalmente a terra è posizionata la riproduzione della facciata di un edificio, con balconi, nicchie, fregi, tettoie. I visitatori si “appendono” virtualmente alle decorazioni e un grande specchio inclinato a 45 gradi riflette l’immagine a terra su un piano verticale, dando l’illusione di una facciata reale e la sensazione che la legge di gravità non esista più.
Le installazioni proseguono nelle sale al piano terra di Palazzo Reale.
Elevator Pitch (2011) invoca il tipo di scenari fantastici che un protagonista potrebbe affrontare in un racconto di Jorge Luis Borges. Anonime porte d’ascensore costruite in una parete che sembravano abbastanza irrilevanti fino a quando non si sono aperte accompagnate dal ripetitivo, caratteristico rintocco, vera allegoria della circolarità della vita. L’apertura delle porte svela una cabina piena di passeggeri di ogni tipo, impegnati in situazioni diverse, disinteressati alla nostra presenza rendendo il nostro sguardo invisibile; nessuno scende, nessuno sale, il rapporto con la vita degli altri è solo apparentemente prossimo. Poiché a ciascuna opera è stata riservata una propria stanza nella galleria, queste dialogano direttamente con l’architettura, operando al meglio come distorsioni spaziali di rimando metafisico.
Window Captive Reflection (2013) rappresenta la routine e l’atmosfera statica all’interno di un atelier, sovrapposta a vedute della vegetazione esterna. La giustapposizione di un doppio riflesso, in cui si percepiscono i dettagli dello spazio interno unito all’ondeggiare degli alberi del giardino, richiama la memoria che il vetro contiene. Ciò che si vede, insieme a ciò che si percepisce, pone lo spettatore di fronte a uno spazio “altro” che imprigiona nel riflesso non solo immagini ma anche il tempo. Associare dualismi opposti, come uno stato di riflessione con uno stato di azione, è caratteristico del linguaggio di Erlich. Ma sono condizioni solamente apparenti.
The Cloud (2018): una delle tendenze dell’umanità è quella di cercare di aggiungere ordine e forma a ciò che non c’è, come nel caso delle stelle disposte a caso e organizzate in costellazioni. Disorientamento e smarrimento percettivo sono caratteristiche costanti dell’opera di Erlich, che si “diverte” a creare immagini che scatenano nell’osservatore sensazioni illusorie. Quasi a voler catturare l’impalpabile, Erlich presenta diverse nuvole che fluttuanti in imponenti vetrine come in un gabinetto di curiosità. Allo stesso modo, fin dall’antichità abbiamo immaginato varie forme nelle nuvole, che cambiano continuamente, intraprendendo attraverso le loro continue mutazioni un viaggio onirico. Una volta fuori, viene naturale alzare lo sguardo e osservare il cielo che, secondo l’artista, con le sue luci, forme e colori condiziona la percezione che ognuno di noi ha della propria città.
Rain (1999) fu realizzata per la prima volta in occasione della Biennale Whitney del 2000 a New York e sfida ingegnosamente la convenzione accettata secondo cui solo all’aperto può piovere in modo torrenziale. L’opera consiste in un falso esterno sotto forma di una messinscena realizzata con un muro di mattoni e finestre, contro cui le gocce di pioggia ingegnerizzate si disperdono con forza, mentre i lampi illuminano il cielo. Oltre al disorientamento, caratteristico dell’opera di Erlich, di vedere uno spazio esterno dall’interno, l’opera genera strane e inquietanti sensazioni di malinconia e spavento radicate nella condizione di una pioggia che non conosce soluzioni di continuità.
In Port of reflections (2014), tre barche sembrano galleggiare sull’acqua. In realtà, quest’installazione utilizza un computer per calcolare il modo in cui una barca dondola sull’acqua, per poi ricrearne con precisione l’aspetto e le movenze. Percepiamo l’opera in questo modo perché crediamo che una barca sia qualcosa che galleggia sull’acqua. In questo modo, l’opera ci aiuta a capire quanto vediamo le cose attraverso la lente dei nostri preconcetti e stereotipi. La “riflessione” del titolo va oltre la sua dimensione sensoriale, stimolando un ragionamento sul rapporto tra immagine e realtà: come in opere quali Subway, Global Express, El Avion, Port of Reflection ci ricorda che ci moviamo senza sosta, siamo sempre in transito su una barca, allegoria del percorso di vita, come Ulisse nel suo ritorno a Itaca.
Chiunque abbia viaggiato su un volo notturno che attraversa più fusi orari ha probabilmente familiarità con la sensazione di stasi e disorientamento associata al risveglio. Night Flight (2015) – così come El Avión (2011) – induce questo senso di sogno riproducendo una veduta notturna della superficie terrestre dal finestrino di un volo passeggeri. La meraviglia e annoiata inquietudine che accompagnano i lunghi voli, vengono evocate attraverso questa simulazione convincente all’interno di un museo per generare un momentaneo dubbio sul fatto che si stia vedendo o meno il vero panorama da chilometri sopra la superficie terrestre.
Uno dei temi ricorrenti di Erlich è la persistenza di mondi nascosti dietro la facciata comune e a volte insipida della normalità. Come spesso avviene, al primo sguardo The View (1997-2005) non offre nulla di più insolito di un paio di finestre adiacenti alla cucina, con le persiane semiaperte. Avvicinandosi e scrutando attraverso le persiane, appare l’immagine della parete posteriore del condominio vicino. Siamo in un’ora serale imprecisata e più di una dozzina di vicino stanno tutti svolgendo i loro vari rituali: vestirsi, lavarsi, cucinare, mangiare o guardare la TV. Un voyeurismo tanto manifesto da creare l’illusione di una sorveglianza continua. Tuttavia, l’illusione è così irresistibile da accendere l’esperienza di un piacere proibito nell’osservare ciò che fanno i propri vicini senza il timore di essere colti sul fatto.
Ascensor (1995) e Lifted Lift (2019) sono ascensori che non salgono né scendono: spogliati delle loro funzioni, la curiosità ci impone di scrutare all’interno, portandoci a una duplice combinazione di sorprese. La prima è la vista verso il basso, che si estende all’infinito sotto il pavimento che induce la seconda, la consapevolezza che questo spazio in realtà non possa esistere. Il mondo immaginario che Lift crea si basa sull’idea che gli spettatori si aspettino in qualche modo, quando guardano al suo interno, di scorgere un vano ascensore segreto che corre sotto il pavimento del museo: quest’opera è la prova diretta che le leggi della natura sono state momentaneamente sospese, permettendo alla percezione di prevalere sulla logica. Ogni sorpresa è, a suo modo, un caso di spazio liminale che agisce per correggere o minare la prospettiva dominante del momento: dalla realtà alla fantasia, o dall’illusione alla rivelazione.
In Global Express (2011), i paesaggi urbani scorrono oltre quello che sembra essere il finestrino di una metropolitana o di un treno sopraelevato. Mentre osserviamo le immagini, possiamo percepire la cadenza incalzante del viaggio, osservando una città iconica (Tokyo) trasformarsi senza soluzione di continuità in un’altra (New York) e poi in un’altra ancora (Parigi). Global Express rivela i monumenti e i segni architettonici che identifichiamo con ogni città. Intrecciati tra loro come un evento simultaneo, sperimentiamo ciò che la tecnologia ci offre ogni giorno: la capacità di attraversare distanze impossibili in millisecondi. Architetto dell’incerto, Leandro Erlich crea spazi dai confini fluidi e instabili. Il video ci lascia la sensazione di aver fatto un viaggio unico, in cui più metropoli si fondono in un unico reel globale.
Lost Garden (2013), sfruttando l’architettura dello spazio, consiste in una costruzione triangolare con due finestre sulla facciata e un giardino al suo interno. Nelle parole dell’artista, Lost Garden aspira a creare profondità nell’esperienza banale degli spazi quotidiani, suggerendo uno stato di nostalgia permanente. Come in altre opere di Erlich, lo spettatore è intrappolato in un gioco di percezione scultorea e di trompe l’oeil, perfino quando l’aspetto esterno dell’opera contraddice ciò che percepiamo del suo interno. Il riferimento del titolo a “ciò che è perduto” contrasta con l’immagine idilliaca e paradisiaca del giardino, trasformando l’opera in una metafora del desiderio di recuperare e immortalare il passato.
Changing (2008). Quando il pubblico entra nel camerino elegantemente arredato, trova gli specchi figura intera installati su tre lati. Ma questi specchi si estendono in lontananza creando spazio, piuttosto che mostrare il nostro riflesso. Entrate nello spogliatoio e scoprire che è collegato a un altro spogliatoio in fondo che magari riflette la vostra immagine attraverso altri specchi. Si potrebbe persino incontrare uno sconosciuto che appare improvvisamente nello specchio di uno spogliatoio vicino. Attraverso questo giorno di illusioni e vuoti, i camerini proliferano come un labirinto dai confini indefiniti. La confusione e la paura di perdersi si dissolvono a favore della meraviglia dell’incontro. Proprio come Alice che si perde nello specchio e non è più in grado di distinguere tra questo e quell’altro lato dello specchio, tra sé e l’altro, noi ci perdiamo in un labirinto intrecciato di non uno, ma ben 30 spogliatoi.
Staircase (2005) sembra una scala a chiocciola a grandezza naturale, compresa la tromba delle scale, e poi ruotata di 90 gradi. Sebbene lo spettatore stia guardando un’opera d’arte in verticale dal pavimento, viene colto dall’illusione ottica di sbirciare in una tromba delle scale rivolta verso il basso. Le altre persone sulle scale possono essere viste guardando di lato, non verso l’alto, il che rafforza ulteriormente un’esperienza dai tratti inquietanti. Con quest’opera, che elimina il ruolo di una scala per far salire e scendere le persone, Erlich libera la struttura architettonica dalla sua funzione originale, trasformandola attraverso la sua sovversione percettiva, in un’opera d’arte autonoma.
Una delle prime sculture video di Erlich è Subway (2009) dove immagini in movimento introducono un’ambientazione virtuale, uno spazio altro trasportato in galleria. Come El Avión e Global Express (entrambi del 2011), questa installazione invoca il ritmo ipnotico del viaggio e del transito ma la funzione delle immagini è meno narrativa a favore di un’illusione spaziale: Le sequenze audiovisive, spesso mute, sono regolate secondo i parametri della verosimiglianza cinematografica, perché è questo che ce le fa percepire come realistiche. Una sorta di temporalità ciclica e ripetitiva in cui l’interesse per la progressione delle immagini inizia a dissolversi come per esempio in Elevator Pitch (2011).
Traffic jam – Order of importance (2018) presenta una veduta di sculture ricoperte di sabbia di auto e camion, disposte in modo tale da assomigliare a un ingorgo nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi del cambiamento climatico. Due file di veicoli divise da uno spartitraffico dove la maggior parte dei veicoli è parzialmente sepolta nella sabbia, per dare l’impressione di essere sommersa – un riferimento all’innalzamento del livello del mare causato dal riscaldamento globale. “Il cambiamento climatico e le sue conseguenze non sono più una questione di prospettiva o di opinione”, ha dichiarato Erlich. “La crisi climatica è diventata un problema oggettivo che richiede soluzioni immediate”. Come un’immagine di una Pompei contemporanea o una reliquia del futuro, l’opera allude anche alla nostra fragile posizione nel grande equilibrio universale.
Classroom (2017) è una installazione interattiva che pone il pubblico di fronte a due stanze di proporzioni identiche divise da un vetro. La prima stanza è disadorna e tematicamente neutra, con semplici panche scure che inviato a sedersi, ma la stanza, dall’altra parte della finestra, è una minuziosa simulazione di un’aula scolastica fatiscente, chiusa e congelata nel tempo. Quando gli spettatori entrano, si riflettono nel vetro e appaiono come fantasmi nella stanza dall’altra parte. In questo modo, diventano come le apparizioni del passato, un invito ad attingere ai propri ricordi personali e alla propria immaginazione per tornare, da adulti, a una scena archetipica dell’infanzia. Mentre gli spettatori si godono l’atmosfera che questa illusione evoca, si confrontano anche con una visione del futuro sollevata dai loro ricordi e dalle loro storie d’infanzia, nonché con i problemi di calo della natalità e della popolazione con cui l’Occidente si confronta oggi.
Hair salon (2017), sebbene sembri una ricostruzione di un salone da parrucchiere con specchi e sedie ordinate, presenta delle sorprese. Alcuni specchi non mostrano i riflessi cosi come siamo abituati: non vediamo noi stessi, ma piuttosto persone che non sono nemmeno presenti nella stanza, che ci guardano disorientati quanto noi. In effetti, dall’altra parte di quello che pensiamo sia lo specchio c’è uno spazio completamente diverso. Erlich fa leva sulla nostra aspettativa che lo specchio mostri il nostro volto, mentre in realtà lo “specchio” è solo una cornice che separa un altro spazio vuoto, in un gioco percettivo di pieni e vuoti comune all’artista.
Leandro Erlich Oltre la soglia
dal 22 aprile al 4 ottobre 2023
Palazzo Reale, Milano