Lungo l’asse imbandito di una tradizione tutta italiana, estesa ed estenuata in un infinito e ritualistico banchetto domenicale, il collettivo curatoriale Varco Attivo nell’esposizione E se il pranzo della domenica non finisse mai?, negli spazi di Cosmo a Trastevere, ha trasportato il pubblico – per un’unica sera: il 26 Aprile scorso – in un’installazione immersiva che ha amplificato, teatralizzato e infine riconnesso la memoria e l’esperienza collettiva alle forme della convivialità e del consumo gastronomico, attraverso la messa in scena di una intramontabile consuetudine, un presidio cerimoniale familiare in cui l’ostentazione dell’abbondanza alimentare è sostanza radicale tra le più tenaci e fondanti della prassi culturale.
«Con quali parole definire il quasi immemorabile senso di sicurezza borghese che emanava da quell’appartamento? Un inventario nelle sue numerose stanze oggi non farebbe onore ad alcun rigattiere […] a tal punto compenetrato di se’ stesso e della sua durata da non prevedere alcuna usura, restando sempre ugualmente prossimo e ugualmente lontano dalla propria fine, che pareva la fine di tutte le cose» così Walter Benjamin, ripercorrendo la sua infanzia berlinese in Immagini di città, descrive la casa della nonna, pervasa di torpore e neghittosità, le stesse che hanno attraversano come paesaggio d’infanzia domestica gli ambienti dell’associazione culturale trasteverina vestita di mobili e capricci signorili, intrisi di un velo spaziotemporale privo di epilogo.
Tra mito borgese e connotazioni affettive di oggetti e stanze, tra pareti disegnate da ricordi, insieme grotteschi e giocosi, tra ritratti anni ’80 graffianti quanto sorridenti, leggeri quanto folli, il culmine del rito familiare per eccellenza, rappresentato dalla tavola imbandita, è stato animato dall’azione performativa degli artisti che nelle vettovaglie esposte hanno perpetrato ironicamente e parodisticamente il ritrovo parentale in una fluida destrutturazione o ristrutturazione di senso, mentre il pubblico nell’osservazione distante, spettatore-voyeur di una sacralità culinaria e del chiacchiericcio resistente come il pasticcio di maccheroni, ha vissuto e rivissuto il panorama festivo dall’interminabile durata, che, come scrivono i curatori, trova tregua nel pisolino.
In una connessione fra suono e cibo, ad accompagnare l’installazione e la performance un soundscape dal sapore vintage ha celebrato la reminiscenza della dilatata sensazione di annebbiamento post-prandiale.
Il collettivo, nell’intento di creare un’esposizione artistica in grado di connettere in modo non convenzionale le species artis (musica, scultura, performance, pittura, fotografia, visuals, design), ha trasportato gli osservatori nei meccanismi fondanti di una estetica del mostrare, materialmente prelevata dalla salda e rassicurante centralità domestica che nel cibo ritrova uno spirito profano e sacrale, profanato e sacralizzato ad un tempo.
L’esposizione E se il pranzo della domenica non finisse mai? nella sua vitalità mordace e faceta ha accolto e iterato i costrutti e le tradizioni, i rituali e le consuetudini sociali palesando e rivolgendo le strutture e le evoluzioni, i segni e le codifiche che veicolano significati e funzioni di una messa in forma identitaria e socio-culturale.