Roma Arte in Nuvola

L’arte di domani. Emilio Isgrò

Il Seme d’arancia ingrandito e “piantato” in varie città d’Italia, a cominciare da Barcellona Pozzo di Gotto per finire a Palermo, dove l’ultimo Seme d’arancia in pietra siciliana sarà accolto il 5 marzo prossimo presso Palazzo Branciforte, è una delle opere più note di Emilio Isgrò. Che ad esso ha dedicato una Teoria del seme: in una società che tende a celebrare solo le cose grandi, che non hanno bisogno di esser replicate, il seme è quasi invisibile. Rappresentarlo in dimensioni giganti significa “segnalare una condizione di malessere che ormai sfugge completamente a chi continua a non capire (o non vuole) che la concretezza finanziaria è cosa naturalmente ben diversa dalla concretezza dell’arte e della vita” (Isgrò Seme d’arancia, Electa, 1998). Da questo punto di vista, la posizione di Isgrò non è cambiata. In questo nostro colloquio continua a scagliarsi contro l’arte “intesa come voce del bollettino di Borsa” e programmata a tavolino. Ma senza preconcetti sul presente – vedi l’apertura di credito alla prossima Biennale – e con la ferma speranza di “riaccendere le luci”, a pandemia conclusa, sull’arte di domani.

Emilio Isgò. Foto Paolo Castronovo

Viene prima la luce o la parola?
Arrivano sempre insieme.

È finalmente giunto il tempo in cui “la capacità di riflettere si salda alla necessità di creare”?
Si comincia appena ora a riflettere. Ma non ancora abbastanza.

Milano è una città che conta, artisticamente parlando, o bisogna andare altrove?
Milano è una delle capitali dell’arte mondiale, da sempre. E naturalmente, con Milano, lo è l’Italia. Da noi si produce un’arte che non ha niente da invidiare a qualsiasi altro paese. Di qui però ad affermare che l’arte italiana sia ben sostenuta, ne corre. Questo però è un discorso politico, che non riguarda gli artisti, ma le infrastrutture culturali.

In molti vedono nella nostra un’età buia, in cui tanto il pensiero quanto l’emozione sono schiacciati dal narcisismo dei like. L’arte stessa non è ormai che una forma di intrattenimento digitale?
L’arte è sempre stata intrattenimento, ma equilibrato da una ricerca di contenuti profondi. Oggi, direi, prevale l’epidermide. Quella che Duchamp chiamava la retina. 

Di sicuro la rivoluzione informatica ha prodotto mutamenti di costume…
Ha vinto il consumo, e l’arte intesa come voce del bollettino di Borsa. 

Nessuna eccezione?
Già il fatto che le persone più avvertite comincino a porsi queste domande, è un segno positivo. E tuttavia, come mi ripeteva un vecchio amico, “non si deve spingere il carro mentre è in salita”. Aspettiamo che, tra Covid e vaccini, le coscienze maturino da sole.

Una risposta alla crisi potrebbe essere tornare alle radici.
Se per riscoperta delle radici si intende la rivalutazione di quei legami che sono stati tagliati da interessi puramente economici, procedere in questo senso è la scelta più sensata. Se al contrario si intende il cortile, il localismo anziché un approccio globale a una realtà dove il lontano è vicino e il diverso va sempre più integrandosi, non credo proprio. I legami di sangue funzionavano forse nelle antiche tribù, non certo in una civiltà moderna, in cui i rapporti seguono dinamiche complesse.

Più che di sangue, oggi si parla di latte: Il latte dei sogni, per ricordare il titolo scelto dall’Alemani per l’ultima Biennale.
Non sempre è comprensibile ciò che accade in istituzioni prestigiose come Dokumenta o la Biennale. Ma stavolta l’appello ai sogni, almeno così spero, forse non è nient’altro che l’invito a un minimo di arditezza intellettuale e creativa. E mi piace che l’Italia si presenti sulla scena dell’arte internazionale con un solo artista, che davvero si assume una bella responsabilità davanti al Paese. Trovavo ridicolo, infatti, che in passato si adottasse una sorta di Manuale Cencelli per dividere lo spazio tra dieci e quindici artisti. Ne basta uno, ma che sia veramente bravo. Me lo auguro. 

Forse sarebbe il caso di studiare.
Ma non sui social. Bisogna studiare i libri per capire meglio i social. Diciamo che lo studio dà la giusta prospettiva: consente di distinguere l’arte commerciale da quella “d’autore”. Io privilegerei la seconda, senza esitazioni.

Anche l’artigianato assume, a volte, forme nobilissime: perché non dovrebbe assumerne l’arte commerciale?
Per carità. Prendiamo uno scrittore come Camilleri. Molti per anni lo hanno trattato con la puzza sotto il naso. In effetti non è Joyce, e men che mai Gadda, ma ha pregi stilistici di scrittura e io mi diverto a leggerlo. Perché non dovrei? 

A parte la trasformazione in Fondazione del suo atelier in via dei Martiri Oscuri a Milano, a quali altri progetti si sta dedicando?
Lavoro a una mostra a Pechino, e a un’altra a Brescia, composta interamente di opere nuove, che occuperà l’antico centro cittadino. Purtroppo sono ancora sub iudice causa pandemia. Facciamo quello che, giustamente, ci consentono di fare. Quando si è in guerra, per evitare i bombardamenti bisogna spegnere le luci: le riaccenderemo tutte insieme non appena avremo vinto la nostra battaglia contro il virus.

Un’ultima domanda. Se dovesse dare una definizione di arte, che cosa scriverebbe (per cancellarla, s’intende, poco dopo)?
L’arte è l’unica fragilità umana capace di rendere il mondo un po’ più respirabile. È il compimento delle speranze che non osiamo confessare.

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