A Cagliari, in via Giuseppe Manno (n. 10), la Crobu Art & Design Gallery di Dante Crobu, non è soltanto uno spazio espositivo la cui vocazione torna a riflettere sull’arte intesa anche e soprattutto come comunicazione estetica e artigianato artistico, poiché l’idea che guida questo brillante progetto si lega significativamente a un piano di lavoro avviato nel 1957 con la fondazione dell’I.S.O.L.A., Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigianale (non dimentichiamo che proprio in quest’anno l’I.S.O.L.A. partecipa alla Triennale di Milano dove è premiata con la Medaglia d’Oro), “inspiegabilmente” soppresso nel 2006.
L’innovativo programma dell’I.S.O.L.A. (un suo predecessore è la manifattura per la produzione di ceramica artistica e d’uso denominata Spiravoluta da Francesco Ciusa nel 1919 SPICA, Società per Industrie Ceramiche Artistiche), a distanza di quattordici anni, torna oggi tra le linee guida di questo nuovo spazio espositivo con la contestuale creazione del progetto IAS – Industrie Artistiche Sarde il cui programma, non lontano da quello voluto illo tempore dall’ENAPI (Ente Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole Industrie) per potenziare il mondo dell’artigianato locale, mira a diffondere la cultura della Regione Autonoma di Sardegna in Italia e nel mondo contemporaneo.
L’esposizione permanente proposta dalla Crobu Art & Design Gallery (permanente eppure in progress perché si nutre via via di lavori che ne mutano costantemente l’assetto e l’aspetto), parte da una serie di pregiati manufatti – opera di numi tutelari quali Federico Melis, Francesco Ciusa e Eugenio Tavolara – per presentare l’opera di cinque artisti che operano nel campo più innovativo della tradizione: della storia, della memoria, della tradizione popolare piacevolmente tradotta in oggetti o segni con luminoso valore estetico.
Accanto alla rielaborazione in ceramica dei tradizionali campanacci in ottone o altro metallo (is sonaggias) progettata dallo stesso Crobu che trasforma l’arte di sonnaggiose pittiolos in un universo antropomorfo dove pecore e montoni di grandezza diversa attraggono il pubblico, rimandano a Tonara, al mondo pastorale, al suono lontano di sonaggios, narboliesas, coppias, traccas che tanto ha caratterizzato i romanzi e i racconti e i ricordi di Grazia Deledda, ci sono le forme, i segni archetipici di Graziano Salerno riprodotti su eleganti mattonelle e piatti o anche seducenti xilografie che lasciano trasparire la potente valenza simbolica del suo lavoro, della sua ricerca breve ma intensa.
Tra i lavori di Gianfranco Setzu (uno studio in ceramica sul latte versato e dunque sulla protesta dei pastori sardi) e alcune sperimentazioni piattiformi prodotte da Ruth Georgi – suoi anche alcuni piacevoli fogli acquerellati – dove cielo e mare sono tutt’uno veracemente, ci si addentra in un universo sempre più irresistibile, dove tradizione e innovazione si incontrano per ridisegnare il passato con la forza prorompente del presente e lo sguardo rivolto alla costruzione del nuovo.
Sorprende, nell’itinerario offerto dalla galleria, il lavoro di Fabio Frau: e sorprende per il singolare spazio che a mio parere occupa nel panorama dell’arte, della migliore arte contemporanea. Basta andare al suo laboratorio (al suo studio) per capire la portata innovativa di quello che sta elaborando con pazienza da qualche anno a questa parte: un massiccio programma sulla μίμησις, sull’impronta limite, sulla soglia, sul punto di contatto (invisibile? indivisibile?) tra due elementi, sullo spazio del fare spazio (del fare spazio nel farsi spazio), sullo spazio che indica l’interstizio, il tra, il ponte, la libera interpretazione di un luogo che esiste ma non si vede. Del suo lavoro, e di quello prodotto da Graziano Salerno, spero di poterne parlare presto, dopo aver approfondito al meglio le linee che lo rendono unico, autentico, prezioso.