In un mondo iperindividualista come quello dell’arte, hai fondato un collettivo: a quale scopo?
Lo scopo è proprio quello di contrapporsi all’individualismo che specialmente nel mondo dell’arte impera. La collaborazione tra artisti dovrebbe essere incentivata proprio per confrontarsi e sperimentare. L’artista è l’espressione della propria creatività – una ricerca continua ed evolutiva – ed ha bisogno di aiuto per rinnovarsi e crescere. Per questo nasce il collettivo: per restituire all’arte la sua identità.
Due membri di Gas, Gimaka e Sadif, hanno lavorato per anni come ghost artist: la loro partecipazione è un riscatto del sommerso?
Sì assolutamente. Molti artisti di talento sono costretti, per mancanza di mezzi, a vendersi, a cedere ad altri le proprie qualità, contentandosi di sopravvivere rimanendo nell’ombra. Così si diventa la manovalanza sotto pagata degli artisti di facciata che avendo a loro disposizione i mezzi possono permettersi di comprare il talento che non hanno. Basterebbe un po’ più di onestà e di spirito di collaborazione. Gli artisti da sempre si sono avvalsi di assistenti. Il connubio tra chi mette l’idea e chi la realizza non va visto come un deficit ma come un valore aggiunto.
I deboli, a cominciare dalle donne, sono, credo non a caso, uno dei vostri soggetti preferiti.
Siamo artisti: interpretiamo il nostro tempo cercando di essere una voce fuori dal coro, dando colore a chi resta spesso nel buio della propria condizione. La nostra speranza è di smuovere le coscienze addormentate di una società che si basa sul potere del denaro, dell’apparire anziché dell’essere, sempre più priva di umanità. Le nostre opere sono provocatorie, irriverenti, crude e spesso assolutamente scomode. Rischiando, anche, di diventare impopolari, non possiamo fare a meno di essere umani.
E di ricordarlo a chi lo ha dimenticato.




Il prossimo 22 ottobre si terrà a Venezia, presso il Padiglione del Camerun, una vostra performance, “La terza pace mondiale”. Di cosa si tratta?
Si tratta di schierarsi dalla parte della pace con ogni mezzo possibile. Si tratta di essere quel tipo di artisti al servizio di una minuscola parola che è l’espressione di tutto ciò che serve per curare il mondo.
Diventeremo il manifesto vivente della terza pace mondiale.
In che modo?
Faremo, sicuramente, una performance di danza su ritmi africani e realizzeremo segni tribali sul corpo dei danzatori, come avvenuto in altre occasioni. Durante questa esibizione, intendiamo raccontare la storia africana tracciando segni sul corpo, perché per noi l’arte è senza confini. Vogliamo dare, da sempre, un segnale di provocazione contro la politica, ma anche lanciare un messaggio sociale. Nel mondo si fa la guerra; noi, invece, vogliamo abbattere i muri in nome della pace. Questa è la nostra missione.

Tu sei di Messina e vivi in Sicilia, ma sei altrettanto di casa all’estero, dove hai partecipato, anche singolarmente, a svariate rassegne internazionali. Come sei stato accolto da musei e istituzioni? Hai notato differenze rispetto all’Italia?
La tua domanda è articolata. Si, ho partecipato a tanti eventi internazionali e biennali tra Cile, Argentina, Brasile, passando per musei in Perù e in Vietnam. Ho fatto anche esperienza di residenze artistiche in Nuova Zelanda, in Cina e in Europa.
Un giro del mondo.
Sì e, se posso dirlo, non è affatto vero che tutto il mondo è paese. I musei di queste nazioni sono molto più semplici dei nostri: meno burocrazia e più meritocrazia.
Pensi che il sistema dell’arte sia cambiato in questi ultimi anni di guerra e pandemia? Se sì, in che modo?
Guerra e pandemia hanno inevitabilmente intaccato un sistema di per sé già molto fragile. Il prodotto artistico è futile e in tempi così difficili diventa un di più che in pochissimi richiedono.
Mostre, esposizioni, eventi, tutto ciò che è legato all’arte ha ripreso il via dopo un lungo periodo di stop e con molte limitazioni. Diventando ancora più precario ed incerto. Mai come oggi l’arte ha bisogno di mecenati, di figure che investano sul talento più che sul profitto, affinché il termine stesso di artista ritrovi il suo vero significato.

Durante l’ultima Biennale hai organizzato una performance con Federico Moccia: una sfida alla compartimentazione della cultura?
Il dialogo tra i diversi campi culturali è assolutamente affascinante e quando si trova la giusta sintonia si può assistere a qualcosa di veramente unico.
La performance alla Biennale di Venezia con Federico Moccia nasce proprio dall’esigenza di mostrare l’importanza del dialogo e dello scambio.
Di recente hai rifatto la Natività perduta di Caravaggio; hai persino dipinto un ritratto dell’artista; sbaglio, o ti identifichi in Michelangelo Merisi?
Più che di identificazione io parlerei di profonda e infinita ammirazione. Caravaggio ha accompagnato tutto il mio percorso artistico attraverso la forza passionale della sua vita e delle sue opere ed è a tutt’oggi una incredibile fonte d’ispirazione. Rifare la Natività è stato come restituire Caravaggio alla Sicilia e la Sicilia a Caravaggio.
Progetti per il futuro?
I prossimi impegni internazionali saranno in Africa e Medio Oriente. Sperando che si possa iniziare a viaggiare nuovamente.
