La tela di Penelope: Silvia Scaringella

Tra il novembre e il dicembre dello scorso anno, presso la Sala Kounellis di Palazzo Belmonte Riso, sede del Museo Regionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo, si è inaugurata “Senza titolo”, installazione temporanea di Silvia Scaringella a cura di Andrea Guastella. L’istallazione – una serie di teli dipinti a inchiostro giapponese di misura modulabile disposti al suolo su binari sfalsati – si è accompagnata “alla grande installazione di Kounellis di palazzo Riso, tra la pesantezza degli armadi poveri, comuni e rudimentali, e la leggerezza nell’essere sospesi: un contrasto, uno scontro tra equilibrio e gravità da cortocircuito visivo” (Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona) che ha creato artificialmente l’“ombra” degli armadi di Kounellis e ha costituito il palcoscenico ideale per una performance di danza di Noemi Crocilla e Giulia Tartamella, con la regia di Salvo Agria. Ne abbiamo discusso con l’autrice che, come ha scritto Claudio Strinati,“vive in sé questa esperienza di condivisione tra arte e scienza che ha assimilato sin dai suoi esordi probabilmente guardando con appassionato acume certi suoi grandi predecessori come Cornelis Escher e, più direttamente a lei vicino, Renato Mambor, da cui ha dedotto un afflato creativo attraverso il quale rielabora, ripropone e radicalmente trasforma un tema ormai profondamente sedimentato nelle nostre coscienze, quello della donna artista che predilige in modo assoluto la plasmazione della materia secondo uno spirito di vera e propria capacità e volontà generatrice. Uno spirito che non può non essere pensato come peculiarità assoluta femminile”.

Quando hai pensato di realizzare “Senza titolo”?
Non è un’opera pensata, ma un’opera che si è generata spontaneamente tra le mura di casa, i mercatini e una Roma deserta. 
I teli sono stati trovati tra l’ammassare di oggetti in disuso.
I disegni sono frutto di stimoli che la mia retina accoglie, e si restituiscono sui teli come un “flusso di coscienza retineo”, in immagine grafica.
I pixel ad inchiostro nero emergono nella mente e si ricompongono sulla tela, alla ricerca di un’integrità, di una realtà comune ed intima. 

Il titolo, anzi la sua assenza, cela un richiamo a Kounellis? 
Sì, riferisce l’impossibilità e la non volontà di dare nome a ciò su cui si specula, per non concluderlo, benché di Hortus Conclusussi tratti.
Il senza titolo apre ad un’interpretazione sensibile; l’assenza di titolo non vincola, veicola l’immaginazione e il senso, aprendo infinite possibilità. 

Kounellis era paradossalmente (ma non troppo) un autore di imponenti installazioni che pensava a stesso come a un pittore; tu invece sei una scultrice che disegna.
È vero, ma come in scultura anche qui resto plurale e procedo per sottrazione e sintesi.
Nel mio lavoro di scultura tutto si compone per piani associati o per singoli elementi che formano sistemi complessi, in “Senza titolo” per simboli aggregati; sono sempre frammenti unici, pluralizzati, connessi, in cerca di un’integrità comune.

Disegni “alla prima” o ti servi del disegno anche in fase di progettazione?
Non c’è premeditazione; guardo, registro, trasformo tutto ciò che l’uomo ha prodotto in linguaggio modulare o dove ha avuto bisogno di moduli per accedere a linguaggi complessi. 
Il modulo in “Senza titolo” si configura come un pixel: l’elemento, la particella più piccola che forma un sistema, un insieme.
Così emergono dal bianco neri pixel che si strutturano in citazioni di mosaici cosmateschi, ricami, codici informatici, pentagrammi musicali, Braille, disegni architettonici, sinopie, guide per il riporto del tessile…
Registro con la retina, e ripropongo un flusso correlato, citando ma non nominando, togliendo come nel procedimento di lavorazione del marmo che mi è affine, sintetizzando al massimo le immagini, esaltando i contorni.

Dai frammenti al tutto: come in un puzzle, in un mosaico.
I frammenti, assorbiti nella realtà quotidiana, si compongono e scompongono correlandosi in un nuovo linguaggio che emerge dalla trama della stoffa, senza preparazione previa, in cerca di nuova integrità o di ciò che rimane. 

Quali sono i tuoi modelli o gli artisti, più o meno vicini, con cui ti confronti?
Artisti che hanno fatto del bianco e nero, della netta luce e dell’ombra, la loro poetica. Senza dubbio guardo alla sintesi giapponese nella pittura Zen, o ai russi come Malevič. Preferisco la linearizzazione e la sintetizzazione della forma alle tonalità, alle prospettive e ai volumi poiché parlano di qualcosa che va oltre l’antropos; una speculazione rivolta al togliere, pur senza negare l’esistenza di fattori differenti. 

Che tipo di relazione si instaura tra le tue opere e lo spazio? Le pensi in funzione di quest’ultimo o è lo spazio a cambiare, acquistando per loro mezzo una nuova dimensione?
È lo spazio a cambiare con l’opera e l’opera a cambiare con lo spazio.
Quando si istaura un confronto, un dialogo tra due soggetti, il connubio, se avviene, è per empatia, per scambio dinamico dove l’uno compenetra l’altro conservando le differenze, ma prendendo e lasciando qualcosa all’altro soggetto; con opera e spazio è uguale, lo spazio lascia qualcosa all’opera e l’opera lascia qualcosa allo spazio, ma entrambi rimangono integri in sé e insieme capaci di accogliere l’altro. 

Che cos’è per te il tempo?
Un ritmo tra accelerazione e vuoto, tra azione e riflessione, tra parole e silenzio. 

A pensarci bene, i tuoi tappeti sembrerebbero una tela di Penelope, un progetto “in divenire”.
In pandemia abbiamo sperimentato il tempo di Penelope, un tempo dedicato alla sospensione. E questa avviene quando non c’è fine nell’agire, si fa e si disfa, perché il riscatto è nel rinnovamento del percorso, non nel mirare affannosamente al solo obbiettivo. Se visualizzo la vita come percorso sto parlando di nascita, se mi focalizzo nell’arrivo, nell’obiettivo parlo di morte. Preferisco nascere ogni volta. 

Essi si leggono pure come un insieme di lettere, numeri, motivi geometrici: siamo davanti a un codice cifrato?
Genetico più che cifrato, quasi scrittura di un Dna. Ossia stesura di elementi, reminiscenze retiniche comuni. Proprio per il loro essere memorie visive, è possibile comprenderli in forma emotiva e non veicolarli per traduzione. Provo a ricreare un luogo-segno in cui l’uomo si senta comodo per percepire l’infinito. Per ciò ricerco una memoria retinica comune. 

L’idea del codice mi è venuta pensando ai libri antichi, alle pergamene arrotolate su un legnetto. Esistono pure precedenti scultorei: la Colonna Traiana.
In quest’epoca caratterizzata dalla confusione dei confini tra reale e virtuale, mi chiedo cosa permanga e dia aderenza al reale, cosa ancora ci vincoli a un possibile senso. 
Forse una memoria retinica comune, raccolta dal passato e nella quotidianità intima, sintetizzata in pixel, linguaggio computerizzato. O magari impressa su dei teli: scripta manent. 
Per quanto riguarda la Colonna Traiana, siamo davanti a un esempio fallico che parla di pluralità, anche se celebra una guerra.

Mi spiego meglio: la Colonna Traiana è anche una tomba. Un mausoleo in forma di libro, per di più collocato tra due biblioteche. 
Nel tempo, immagino, anche questi tappeti potrebbero diventare testimoni, raccolte di una memoria retinica di un passato non virtuale. 

Del resto la scrittura stessa è bianco e nero, luce e ombra: il primo non esiste senza l’altro. E viceversa.
Tra nero e bianco si danno infinite sfumature e questo è il divenire. Nel ritmo e nel susseguirsi del bianco e del nero c’è la base per analizzare le infinite possibilità intermedie. 

Magari è proprio questa la ragione per cui, in “Senza titolo”, il nero del disegno e il bianco del supporto hanno lo stesso rapporto cromatico, sebbene rovesciato, tra il nero del feltro sul fondo e il bianco dei tappeti.
Enfatizzo proprio ritmando tra i due netti estremi bianco/nero, nero/bianco l’infinita pluralità compresa tra i due poli. Nel ritmo continuo, nel passaggio brusco, si percepiscono interiormente le altre tonalità. 
Piegando e dispiegando i tessuti, i pixel neri possono creare infinite forme e ritmi. E poiché nel disegno continuo c’è un calcolo nascosto, le parti vanno sempre a combaciare, a riconfigurarsi; questo permette infinite combinazioni ritmiche, di immagine e di senso.

Il nero è, in un certo senso, l’ombra. Che cosa è per te l’ombra? 
Il contrario della luce e al contempo la possibilità stessa di percepirla.
Quando chiudo le palpebre vado dalla luce al buio ma poi mi addormento e nasce la luce, il sogno. 
Quando entro in una stanza buia i miei occhi si devono assuefare; dopo un po’, però, il buio prende forma, si illumina, e si cominciano a vedere i contorni delle cose. 
Lo stesso quando guardo in faccia il sole.

Nella tua opera conta più il pubblico o il privato, la grande storia o l’eccezionalità del quotidiano?
L’eccezionalità del quotidiano, la memoria comune intima, il percorso non il fine.

Progetti per il futuro?
Ho vinto un concorso indetto dalla Fondazione Fiumara d’arte, per cui realizzerò una grande scultura.