Non so come, ma sono sopravvissuto al Capodanno. Che è sì stare in famiglia, o con gli amici più cari, ma è pure un tremendo tour de force alimentare. Come sottrarsi alle sirene della tradizione? E non parlo di panettoni e pandori, quanto di cibi per astronauti come le cassate, che in Sicilia a Capodanno non possono mancare. Forse la cosa migliore, ai fini della linea, sarebbe andarsene altrove. E guai ad abbassare la guardia. Se, ad esempio, vi trovaste a Madrid, non vi sfiori neppure il pensiero di mangiare italiano: il grado di cottura della pasta – quella che per noi è scotta, per loro è dura come diamante o corindone – vi lascerebbe una fame perenne e ritornati a casa sareste spacciati. Qualcosa di simile, mi sono detto, dovrebbe accadere anche in pittura. Prendi, ad esempio, la prospettiva. Nel Rinascimento, i pittori italiani erano soliti usarla come perfetta definizione dello spazio: un modo per rendere chiare le distanze. O, come accade in certe opere barocche, come artificio scenico: un tentativo di “aumentare” la realtà. E invece no. Per i grandi spagnoli la prospettiva non è una stanca ripetizione del miracolo italiano; è piuttosto qualcosa di simile a una soglia da attraversare, una via di mezzo tra reale e immaginario. Me ne sono accorto il mese scorso quando, dopo anni di attesa, sono infine riuscito a fissare lungamente Las Meninas di Velázquez. Di solito, come accade per la Gioconda, avvicinarsi al quadro è un impossibile. Questa volta, però, lo spazio ai piedi del dipinto era occupato da una classe di bambini con la divisa della scuola che, seduti a terra, ascoltavano in religioso silenzio la spiegazione della maestra. Bastava collocarsi alle loro spalle, e l’impresa era compiuta: mi sembrava quasi di andare incontro all’artista, di essere io il sovrano a braccetto della moglie che egli stava ritraendo – come si vede dal riflesso di uno specchio – mentre sua figlia gli veniva incontro “in prospettiva”, sotto gli occhi dei precettori, con tutto il suo seguito di cani e madamine. Persino il brusio continuo degli scolaretti contribuiva all’effetto e, se non fosse stato per la pacca sulla spalla di una guida che mi invitava a rimettermi in marcia, sarei ancora lì in attesa di ammirare il mio ritratto: un’immagine cento volte più vera di quella solo in parte rispecchiata in fondo al quadro. Quale dunque la lezione di Velázquez (e dei fiamminghi che tanto lo hanno influenzato, a cominciare da van Eyck)? Che le distanze non riguardano lo spazio, ma la sua percezione. E che non esiste notizia più completa di un’informazione assente. Quanto più rimarremo legati alla resa fedele di un tema o di un dettaglio, tanto più la realtà ci sfuggirà. Pensate alla statua di San Giuseppe da Copertino inaugurata il dicembre scorso nella città del santo: l’autore, in ossequio alla tradizione, voleva farlo ballare come un matto, ma non è riuscito neppure a strapparci una risata. Se avesse messo da parte la cassata – la chiosa facile, la soddisfazione più immediata – magari non avrebbe realizzato il suo capolavoro – chi nasce tondo, come diceva mio nonno, non muore quadrato – mi di sicuro si sarebbe un po’ meno allontanato dal suo scopo.
La soglia
L’arte è una soglia da attraversare per scoprire chi siamo. Se ne discute commentando Las Meninas di Diego Velázquez e … il San Giuseppe da Copertino di Francesco Paglialunga.