Ci sono cose che proprio non si sopportano: dire, ad esempio, che la guerra è sbagliata, che provoca lutti, che gli innocenti pagano. Lo sappiamo benissimo che la verità è questa. Ribadirlo, a dispetto della vita, che procede quasi sempre in senso contrario alle buone intenzioni, è ironico, se non addirittura grottesco. Le immagini hanno una forza diversa. Come si fa a rimanere indifferenti di fronte a cadaveri che volano, sollevati dall’onda d’urto delle bombe, come coriandoli nel cielo? Come si fa a non fissare inorriditi un bimbo che raccoglie, in una busta di plastica, pezzi di cadavere smembrati, o un altro che si stringe la fascia al moncone con accanto il piedino amputato? No, le immagini non si possono scordare.

Lo sapeva bene Goya che, commentando le barbarie perpetrate sui campi di battaglia della guerra civile spagnola, non importa se dai francesi o dagli insorti, entrambi fratelli nel male, non poteva far a meno di osservare Yo lo vi, Io l’ho visto. Io c’ero. All’epoca per esserci bisognava trovarsi dove i fatti accadevano. Oggi, a dispetto di una medialità pervasiva e di una altrettanto pervasiva sorveglianza – provate a parlare di burro e patate e vedrete cosa vi proporrà, al primo scrollo, il social che usate frequentare – certe immagini non si trovano subito: bisogna andarle a cercare. E senza perdere tempo: i cadaveri dei condannati a morte fatti a pezzi il Géricault che curava i dettagli della sua Zattera della Medusa poteva guardarli a piacimento. Pare addirittura si sia portato in casa per due settimane una testa di un giustiziato, in modo da studiarne con tutta calma la decomposizione e le varianti di colore. Noi, al contrario, non possiamo sprofondare tranquillamente nell’abisso. Una mano pietosa si affretta a cancellare le tracce dei massacri, dandoci in cambio la solita mistura di gossip, sessualità selvaggia, cattiva informazione.
Svegliamoci. Facciamo udire la nostra voce. Le incisioni di Goya, che pure non parlano, testimoniano, a dispetto del tempo, la pace che nasce dall’orrore.