Non tutto il male vien per nuocere. Il primo giorno del mio viaggio a Madrid – non è passata neppure una settimana e lo ricordo già con nostalgia – un contrattempo mi ha impedito di visitare il Palazzo Reale, progettato nel XVIII secolo dagli italiani Juvarra, Sacchetti e Sabatini. Ero rimasto in fila ad aspettare una buona mezz’ora per una altrettanto buona causa: non pagare il biglietto. E chi sospettava che in Spagna, paese civilissimo, i docenti il biglietto non lo pagano mai? Ad ogni modo, alle 17.00 in punto, la porta del Palazzo mi è stata chiusa in faccia, e a nulla sono valse le mie ingenue preghiere: ero il primo degli esclusi, venivo da lontano, non si poteva fare un’eccezione? No, non si poteva. Non restava che cambiare direzione. Avrei potuto, ad esempio, godermi uno spuntino. Fortuna volle che la curiosità di scoprire da dove provenisse il vento gelido che nel frattempo mi aveva quasi congelato mi inducesse a rimirare il vicino belvedere, dove, superata l’enorme piazza che separa il patio de armas di Palazzo Reale dal sagrato della cattedrale dell’Almudena, si accede alla Galleria delle collezioni reali, raccolta inaugurata lo scorso anno di cui non sapevo nulla, e in cui mi sono avventurato.
L’edificio è uno spazio avveniristico di 40mila metri quadrati caratterizzato da ambienti ampi e allungati e da linee verticali. Visto dal basso, vale a dire dall’uscita, ricalca la prospettiva e imita i materiali dell’adiacente Palazzo Reale. Gli architetti Emilio Tuñon (1959) e Luis Moreno Mansilla lo hanno realizzato scavando la collina e suddividendo il vuoto ottenuto in ambienti sovrapposti cui si accede tramite rampe, percorribili in entrambi i sensi. In ciascuno di essi sono esposti reperti relativi ai periodi principali della monarchia spagnola, dagli Asburgo ai Borboni. Non solo quadri e sculture – e che quadri e che sculture, dal Cristo dell’Escorial di Bernini a un cavallo di Velázquez a una fantasmagorica Crocifissione di Tiziano – ma anche arazzi, mobili, orologi, gioielli e vasellame, armi e cristallerie, mappe e documenti e in generale oggetti decorativi. Il risultato è uno spaccato senza pari del rapporto tra arte e potere che, da un lato, pubblicizza i siti da cui provengono i reperti, dall’altro, come una scatola della memoria, li protegge, li mette al sicuro. I madrileni lo hanno accolto con una certa diffidenza, e non sono mancate le polemiche per l’impatto paesaggistico. Ma che dovremmo dire, noi italiani, che, oltre a non poterci permettere le spese degli scavi (intendo dire le spese necessarie per ospitare i reperti recuperati negli scavi), le polemiche siamo soliti farle prima ancora di intraprendere (o forse sarebbe meglio dire allo scopo di non intraprendere) qualsiasi iniziativa? Sia come sia, tutto questo raspare nella polvere mi ha fatto subito pensare – avverto ancora il brivido – alle immani distruzioni in Ucraina e in Medio Oriente, o nell’Africa subsahariana. Per una Notre Dame restaurata ci sono dieci, cento, mille chiese, strade, palazzi, siti archeologici in rovina. Chi ci restituirà Ninive e Nimrud, Baalbek e Palmira? E San Porfirio a Gaza? Forse è davvero il caso di rifugiarci sottoterra, coi capolavori che amiamo. Come le vite delle innumerevoli vittime, la memoria, una volta perduta, non si recupera più.