Krizia Galfo, We need to talk, 2023, installation view, foto di Giorgio Benn

Krizia Galfo. Una grammatica di prossimità tra identità e non-io

Fino al 9 marzo 2023 lo spazio Curva Pura ospita “We need to talk”, prima personale romana dell’artista Krizia Galfo.

La quarta parete di Curva Pura è irreprensibilmente infranta da un involgimento percettivo, dualistico e denso nel contatto intimo richiamato tra corpi che abitano le opere della prima personale romana dell’artista Krizia Galfo dal titolo We need to talk. La mostra è accompagnata dal testo critico di Eleonora Aloise che ha individuato la perpetua dicotomia relazionale come sorgente primaria del lavoro della nostra: “la nascita è… come un’onda creata e sospinta da altre onde”.

Il processo lento della pittura incanala, attraverso i soggetti e le loro azioni, il sentire e l’essere come visioni temporanee ed espressive di esperienze, relazioni e predisposizioni librate nel tempo presente e officinali in un’analisi diagnostica che l’artista compie, interpellando quella vita propria della quale si nutrono le opere ultimate. Il gesto evocato pone in essere e corregge il pensiero. L’altro esprime una condizione di distanziamento in uno spazio possibile e richiama una velata intenzionalità di avvicinamento: tramite il reciproco interagire e il dià-logos si implica una conduzione di trasporto nell’intrinseco sconfinato individuale. L’alterità non si esprime come alienazione dal sé ma come matrice di riconoscibilità, elaborazione e risoluzione in una grammatica di prossimità che elude l’indulgenza.

Il lavoro articolato nella costruzione di un immaginario interiore è misura circostanziale di una pennellata non segnalata che esprime un’unione inscindibile con l’operare e con l’operato. La concessione di una profonda identità si genera spontaneamente all’interno di un supporto che vive la contiguità stessa delle pulsazioni fisiologiche della nostra. La tela si riempie imprescindibilmente di una verità del vissuto che è colma di una fortuita spontaneità filmica. I close-up, singolari nella produzione dell’artista, esprimono un voler riavvicinarsi e socchiudere l’attenzione su un particolare come meccanismo di riconoscimento sintetico di un’inquadratura dilatata: si scinde una parte per una più ampia trascendentalità emotiva-emozionale. Si dipanano fessure di connessione sull’essenza in profondità nel mondo, in grado di fissare ancestralmente i moti del divenire umano. Lo sguardo si orienta oltre la fisicità aurorale dei volti e si aggrava di una direzionalità puntoria che avviluppa, sviscera e trasfigura le stratificazioni serrate dei nessi interdipendenti e atemporali dell’io.

Il controllo consapevole è salvifico verso un’eccedenza pato-logica che non consente la rigidità del limite come limes relazionale nella filiazione. E il ciclico fluire della subordinazione è integrato interamente nella posa prematuramente restia in The circle. Emblematicamente richiamiamo, Donald Winnicott: “Il lattante non esiste, ma esiste una relazione tra il bambino e la madre: all’inizio il bambino è l’ambiente e l’ambiente è il bambino”. L’accrescimento delle capacità nel processo di regolazione porterà sempre la memoria del contenitore genitoriale che ha determinato quelle funzioni di adattamento rispetto agli urti esterni. Inconsciamente la determinazione complessiva del futuro non disattende, né può sottrarsi all’intensità esperienziale assorbita capillarmente nel DNA.

L’interiorizzazione dei modelli operativi interni si estende fino all’età adulta con un impatto determinante sull’organizzazione interpersonale. Peter Fonagy evidenzia l’importanza della capacità materna di riconoscere il feto come entità mentale psicologica separata per giungere a un riconoscimento della separatezza per la crescita di un Sé riflessivo nel bambino. Si afferra l’utilità di un bisogno che il contenitore offre spontaneamente e affettivamente. Il nutrimento è deliberatamente ammesso come ritorno di ricerca bidirezionale. Una Big Babol e una coccarda si inseriscono in quel paesaggio mnemonico di cure e di deliziosi ricordi che, un attimo dopo divengono dolciastri, poi amari per la frivola nullità che ne consegue. Spesso ci si rivolge verso un rumore, veicolo inatteso che in The blue shirt implica una presenza scomodante e confusionale in un passaggio esistenziale, in cui la solitudine è soffio cardinale per uno sviluppo sintonico con l’esterno. Un accostamento tra corpi adottato ma non desiderato, compreso ma non corrisposto. The blue room, un ciglio che è malinconicamente interrogante verso un posizionamento nel quotidiano che non si sofferma nei paesaggi iridali ed epidermici del non detto. Una ristrettezza che ingenera una privazione confortevole. Un’eludibile implosione ci scopre acerbi e ci introduce a gesti sintomatici di soccorso. Una mano accostata alla bocca o chiusa e stretta al torace in un abbraccio lenente. Lentamente il blu avvolge le falangi, altera il suo retaggio. Le pieghe degli abiti sono atlanti di significazioni molteplici che dis-gelano la durezza oculare nella metratura di una richiesta assertiva di ascolto e si collocano nella dinamica di una morbida acuminante oggettivazione.

Il percorso della mostra svela una disposizione confinale delle opere rispetto alle geometrie dello spazio, in cui si articolano con un camminamento di senso nel loro concettuale reciproco prolungarsi e divenire l’una l’estensione incorporea dell’altra.

KRIZIA GALFO | WE NEED TO TALK

testo critico di Eleonora Aloise

fino al 9 marzo 2023

CURVA PURA – Via Giuseppe Acerbi 1A – Roma

Aperto su appuntamento

mail: curvapura@gmail.com tel: 3314243004