Roberto Ghezzi, Naturografia di canale I, (Aquileia), 2022, crinolina, 1309x220cm, courtesy Roberto Ghezzi, Galleria d'Arte Faber

Impermanente.
Il senso del ‹‹due›› nell’arte di Roberto Ghezzi

Senso del limite, presenza dell’immagine: l’artista toscano Roberto Ghezzi porta a Roma, alla Galleria d’arte Faber, alcune opere dal ciclo delle ‘Naturografie’

Era il novembre 1954 quando Francesco Arcangeli – brillante allievo di Roberto Longhi – si lanciava, sul numero 59 di “Paragone” (rivista fondata dallo stesso Longhi), in un’accorata difesa di uno stuolo di pittori da lui rubricati come “ultimi naturalisti”. Dietro alla perentorietà di tale formula, applicata dallo storico a pittori come Morlotti, Bendini, Moreni, e ancora Vacchi e Mandelli, non vi era altro che la consapevolezza profonda, in questi artisti, di non essere “soli a creare nel mondo”.

Un “senso del ‹‹due››” – come Arcangeli ebbe a chiamarlo – una simbiosi con la natura che è totale e che “sfugge alla misura intellettuale”. E se “il senso che non siamo padroni che in parte del nostro destino” era, in quei pittori figli dell’Appennino, causa di sgomento sincero, l’artista toscano Roberto Ghezzi (Cortona, 1978) non sembra voler cedere il passo all’angoscia, mostrandosi – al contrario – ben disposto sul tavolo delle trattative. Nell’eterna partita tra uomo e natura, quel senso del ‹‹due››, che nello squilibrio delle parti atterriva certa pittura Informale sino al disarmo, è fortemente rinegoziato da Ghezzi, assai più incline a pareggiare la bilancia e ad attribuire a se stesso un peso specifico maggiore.

Nel ciclo delle Naturografie progetto intrapreso a partire dai primi anni Duemila e presentato a Roma, in alcuni esemplari recenti, nella bella mostra Impermanente, curata da Cristian Porretta e Davide Silvioli alla Galleria d’Arte Faber –Ghezzi riabilita la figura dell’uomo che, agito com’era da uno “strato profondo di passione e di sensi”, allenta il battito e rilassa il respiro per tornare a pensare. Profondamente scettico verso ogni manicheismo semplificatorio e mistificatore, e lontano dalle derive fondamentalistiche di un razionalismo “che non ha prevalso davvero se non in una cerchia di uomini troppo ristretta” (Arcangeli), Ghezzi mostra  eguali riserve nei riguardi dell’irrazionalismo di marca romantica, non rinunciando mai a una solida base intellettuale e accogliendo nella sua pratica la sicurezza di un progetto il cui esito formale non è mai lasciato alle insidie del caso. Le sue Naturografie, infatti, altro non sono se non una delle molteplici possibilità formali – indubbiamente tra le più felici – dell’alleanza tra una natura lasciata libera di “scrivere” e un uomo che si fa responsabile della predisposizione del supporto materiale. Delle tele di lino, cotone o crinolina, dapprima lasciate allo stato grezzo, e – in una fase successiva della sua carriera – trattate con reagenti chimici, vengono posizionate dall’artista nelle profondità del terreno (gli esemplari in mostra sono stati realizzati in Danimarca e nelle zone boschive dell’appennino toscano) o delle basse acque (Trasimeno, canali salmastri del Friuli) dove, lasciate parzialmente a contatto con il fluire incessante materia e con il brulicare dei microrganismi che la abitano, generano un’immagine.

Volendo recuperare i termini del commento arganiano a Burri, in cui il critico individuava nei sacchi, nei cellotex e nelle lamiere dei “trompe-l’oeil a rovescio” dove era “la realtà a fingere la pittura”, la materia, pur nelle sue esibizioni più sfacciate e nella sua “tangibile plasticità […] tende sempre a rientrare in una superficie” e a generare un’immagine. Un’immagine, quella accolta dal piano pittorico, che non è più rappresentazione – è Régis Debray a ricordarci come rappresentare equivalga a “rendere presente l’assente” – ma che non è neanche presentazione pura e immediata. A “mediare” questo incontro è infatti lo stesso Ghezzi che, per mezzo di indagini preliminari e ricognizioni sistematiche sulla composizione chimica del suolo, seleziona materiali e reagenti specifici (miscele di prodotti edibili ed ecocompatibili che innescano reazioni chimiche, come la creazione di muffe) arrivando a “prevedere”, stabilendo persino la quota di immersione della tela, il risultato estetico finale.  La mediazione dell’artista, tuttavia, che si esercita nel controllo procedurale, nella cura del dettaglio di un’operazione altrimenti contraddistinta da un elevato coefficiente di imprevedibilità, è ribadita altresì dalla scelta di un formato che, lasciando la materia libera di aderire sul piano di superficie, può trattenerla solo nei limiti imposti dal perimetro, escludendo così i flussi e le presenze che lo eccedono e facendo rientrare il rapporto tra arte e vita nei binari del discorso metaforico.

L’arte non è la vita, questo sembra dirci Ghezzi, e il perimetro del quadro altro non è che il lembo più remoto di uno stato percettivo intensificato da occupare per imprimere alle opere un’accelerazione significativa in direzione di un programma etico alternativo: “in una società che ha fatto del residuo imperituro la sua condanna” – spiega l’artista – le Naturografie, erose da muffe e batteri, continuamente minacciate dagli strappi di un tempo che ne viola irrimediabilmente l’unità e “intenzionalmente create per non resistere”, oltre a contestare il culto del bell’oggetto e l’idea dell’arte come cosmetica del potere, mettono in crisi le fondamenta stesse di un pensiero occidentale “che non accetta più l’idea del trapasso” e che sembra aver perso di vista ila consapevolezza del fatto che  “ciò che scompare acquisisce più valore di ciò che rimane”.

Roberto Ghezzi. Impermanente
a cura di Cristian Porretta e Davide Silvioli
Galleria d’Arte Faber
Via dei Banchi Vecchi 31, 00186 Roma
Info: www.galleriadartefaber.com
E-mail: info@galleriadartefaber.com
Telefono: +39 06 68808624

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