“Scrivere un testo su Enzo Cucchi non serve”. A dirlo, ormai già una ventina di anni fa, è stata Angela Vettese, che nel catalogo della mostra dell’artista marchigiano, tenutasi al castello Colonna di Genazzano nell’estate del 2002, ha chiarito, con buona dose di ragione e ragionevolezza, come nelle opere di Cucchi non ci fossero – e non ci sono tuttora – “dispositivi che ne costruiscano il senso, meccanismi che necessitino di istruzioni, testi di vero riferimento letterario” né tantomeno “l’ascendenza di padri così importanti […] né nel regno della figura realista né in quello del surreale”. Le parole di Vettese sono indizi preziosi, consigli illuminanti per tutti coloro i quali – come chi scrive – raramente, davanti a un’opera, abbracciano il puro piacere dell’occhio, impegnati come sono a forzare la serratura, a sfondare – o quantomeno a provarci – la parete muta del quadro per tentare di svelarne il codice, di giustificare gli esiti formali nella somma delle influenze, risalendo la corrente per rintracciare di volta in volta, e in modo sempre chiaro, i “padri” spirituali di una ricerca, siano letterati o scienziati, filosofi o pittori. Con Cucchi tutto ciò non è possibile, e anche la parete bibliografica, predisposta nell’area di lettura antistante l’ingresso della sua ultima mostra romana, appare quasi come una sfida aperta agli studiosi più agguerriti. Una sfida che il pittore, nato a Morro d’Alba, in provincia di Ancona, il 14 novembre 1949, sa già di aver vinto: Francesco Longo, nel contributo in catalogo a Enzo Cucchi. Il Poeta e il Mago, nota proprio come, se da un lato “i libri esposti al pubblico svelano influenze altrimenti inaccessibili”, dall’altro “rimandano sempre ad altri saperi”, generando “ulteriore sete e desiderio” di possederne altri.
La mostra, allestita all’interno della galleria 4 del MAXXI e curata, dal 17 maggio al 24 settembre 2023 da Luigia Lonardelli e Bartolomeo Pietromarchi, raccoglie un corpus di circa duecento opere, che coprono l’intero arco della carriera dell’artista. Pietromarchi, a proposito, chiarisce l’intento complessivo del progetto: “La mostra – scrive – è concepita in modo da farvi entrare nella tana di Enzo Cucchi e perdervi nel mondo della sua immaginazione”; nella tana, il primo ambiente che si incontra è proprio la biblioteca del poeta-mago. La selezione bibliografica proposta dall’artista, infatti, testimonia un’indole onnivora, e nel catalogo quasi “schizofrenico” di titoli trovano posto antologie poetiche e monografie pittoriche, e i trattati di storiografia classica convivono con romanzi di sci-fiction, senza lasciare indietro volumetti dedicati agli animali o alla storia della boxe. La sfida, Cucchi lo sa, è vinta in partenza: come orientarsi, del resto, tra gli anfratti di una mappa così eccentrica? Come trovare una chiave d’accesso universale, un passepartout buono tanto per le balene quanto per le pale d’altare del ravennate? E infine, si può accedere, per il solo tramite della speculazione teorica e dell’approccio razionalista – e forse un po’ talebano – al cuore del mistero di Enzo Cucchi? La risposta, si è capito, non può che essere negativa: da più di quarant’anni, infatti, Cucchi accoglie volentieri, nella sua ricerca, i testacoda, i contraccolpi e le marce indietro nella Storia, nella piena coscienza del fatto che, come confessato su ‹‹Flash Art››, “alla pittura non puoi arrivarci per via concettuale” e soprattutto, prendendo in prestito il titolo di un libro di Gabriele Guercio, dedicato all’illustre conterraneo Gino De Dominicis (anche lui di Ancona), che “l’arte non evolve”. Ed è per questo motivo che la retrospettiva al MAXXI, organizzata in una città cara a Cucchi come Roma, che “è un luogo ma anche un tempo […] un luogo metacronico”, non obbedisce a un principio di successione, fuggendo le secche della cronologia e proponendo, al contrario, un percorso espositivo estremamente libero, nelle fughe e nei ritorni, concepito tra l’altro in collaborazione con l’artista.
Un percorso che prende avvio da un primo agglomerato di opere scultoree, di recente fattura, dove basamenti scaleni, irregolari, disegnati da Cucchi, ospitano i corpi di piccoli putti, che però mascherano volti orrendi, teschi, risparmiando alla vista la presenza della morte, una minaccia avvertita, esorcizzata e quindi abbellita: come nella pratica delle cere anatomiche, ha scritto Luigia Lonardelli, questi lavori compongono “un trionfo della morte celato dietro un tema che può sembrare innocuo e leggero”. Ancora, la curatrice sposta l’attenzione sulla nave in bronzo, collocata appena al di fuori dell’edificio (Religione, 2013), parlandone come del mezzo messo a disposizione dall’artista per condurre gli sguardi verso altri lidi, fino alle mete lontane dell’immaginazione. Più che al mondo effettivo, e al dominio della rappresentazione esatta, quindi, la nave dell’artista punta alla sintesi creativa, alla messa a punto di un sistema di segni in grado di incidere – Cucchi ha parlato di un segno che segni – anche, e soprattutto, sul piano emotivo. L’arte, quindi, si presenta come piano d’indipendenza, come un livello di assoluta autonomia dalla realtà dove la “battuta di caccia” al “segno” avviene interamente nel perimetro che la delimita: “La pittura – sostiene Cucchi – non può partire da altro luogo se non dalla pittura”, ed è nel suo universo parallelo che bisogna “galleggiare […] il più possibile da animali, da cani sciolti, da clandestini”. Il regno della pittura, dunque, coincide in tutto e per tutto con il regno del possibile, nei suoi territori comandano la libertà e l’anarchia, e non vige alcun divieto se non quello di vietare. Enzo Cucchi non trova un posto: come gli altri alfieri della Transavanguardia (come le altre due C, Clemente e Chia, e come Paladino e De Maria), l’arcinoto “movimento” tenuto a battesimo da Achille Bonito Oliva nel 1979, e causa – come spesso accade con i gruppi creati “in laboratorio” – di sofferenze personali (“è come una croce che devo portare”, ha lamentato in un’intervista a Danny Berger), egli batte i territori vastissimi della storia dell’arte senza far fede a un punto fisso d’appoggio. Cucchi è un clandestino, un nomade dell’arte, che ama girare in tondo, recitando la preghiera di sconfessione di quel darwinismo linguistico che, per Bonito Oliva, marcava la soglia dell’arte alla fine dei Settanta: contro “un’idea evoluzionistica dell’arte – ha scritto il critico dalle colonne di ‹‹Flash Art›› (nn.92-93,1979) – che afferma una tradizione dello sviluppo linguistico dagli antenati dell’avanguardia storica fino agli esiti ultimi della ricerca artistica”, contro la “coazione al nuovo” che ha contraddistinto gli sviluppi artistici degli anni Sessanta (e buona parte dei Settanta), la Transavanguardia apre al via libera più totale; a un’idea di arte come “deposizione del pensiero” (Agnetti), come precipitato coerente di una teoria universale e collettiva, la piccola pattuglia di pittori promossa dal critico oppone la logica dell’accumulo come metodologia espressiva di un dettato emotivo più propriamente personale. Più che alla costruzione di un futuro utopico, messo a dura prova dalla crisi delle grandi ideologie, i nomadi dell’arte saccheggiano a piene mani dal grande deposito del passato, lontani però dal vezzo tutto intellettuale della citazione, dal piacere tutto mentale di chi sfoglia il manuale per dimostrare, per strizzare l’occhio ai connoisseurs. Al contrario, la pittura, e tutta la storia della pittura, è, per questi pittori, e specificamente per Cucchi, una forza dirompente, terribile, a cui non ci si può opporre: “oggi tutti i segni si stanno muovendo… – scrive – tutte le cose/sono presenti come un ammasso di paura”. E dalla forza elementale, torrenziale, che trascina tutte le cose sospingendole in un cumulo costantemente rilavorato, fuoriescono ipotesi oggettuali nuove, prodotti che accettano la prossimità dell’olio e della ceramica, che fondono la struttura bidimensionale del quadro con protuberanze scultoree. “Io ho solo appoggiato i miei lavori per terra, ogni volta”, ha spiegato Cucchi, proseguendo il discorso sulla vicinanza spirituale di due delle arti “sorelle”: un discorso osservabile dal prelievo di alcuni materiali (come la rete metallica dipinta a smalto) e, in filigrana, anche dalla scelta di alcuni titoli, come il celebre I piedi di Caravaggio, un carboncino su carta intelata del 1993. Anche per opere come questa, infatti, può valere l’intuizione di Giacinto di Pietrantonio, che ha letto una dichiarazione dell’artista – in cui si esaltava l’abilità di un pittore come Masaccio nel “poggiare bene i piedi per terra alle cose” – come omaggio alla plasticità “scultorea” introdotta in pittura dall’artista toscano.
Tornando al gusto per il polimaterismo che contraddistingue la ricerca di Enzo Cucchi, si può poi dire che è questa la forza del mago, che “si fa portavoce del mistero delle cose modificando alchemicamente la materia cui si avvicina”. La logica dell’esondazione, dello sconfinamento materiale e spaziale, presiede anche la serie degli esperimenti editoriali e tipografici, collocati su una gradinata a più livelli in una delle pareti di fondo. Cucchi, chiarisce ancora Pietromarchi, tratta la pagina scritta come una tela, e la tela come una pagina scritta, e i pop-up cartacei che sbucano oltre il formato standard seguono lo stesso principio con cui le protesi ceramiche si legano al quadro, e alle strutture della “spina dorsale” che corre lungo la sala custodendo piccole tele e bozzetti in terracotta del 2008: l’analogia tra le due discipline, oltre a esplicitarsi sul piano della realizzazione pratica, coinvolge anche la riflessione teorica preliminare e gli obiettivi: tanto in poesia – prima occupazione di Cucchi, che proprio nell’ambito della casa editrice La Nuova Foglio di Macerata conobbe Achille Bonito Oliva (membro dell’avanguardia poetica romana, negli anni ’60, con il Gruppo 63) – quanto in pittura, per l’artista, “si tratta di fermare l’immagine e di farne istantaneamente la sintesi, in qualunque maniera”. Due delle pareti che accudiscono il piano “editoriale” custodiscono, inoltre, due grandi formati, abitate da figure essenziali, due animali: un bovino acquattato come per proteggersi da un vento impetuoso, caldo all’apparenza, e un cane, memore del primitivismo figurativo del Novecento italiano, legato ad un albero che ricorda Carrà, reso in una scala impossibile se confrontato con gli altri alberi in riva al mare. Il cane, come “l’uccello – questo presente, capovolto, nella scultura Il Re Magio (2018) – l’uomo e soprattutto la casa” (Laura Cherubini) costituisce, assieme ad altri motivi ricorrenti come il teschio, una delle tessere dello stringato vocabolario cucchiano, un ecosistema in cui la geografia scarna è la stessa dei “paesaggi rocciosi, gli spaventosi dirupi e la costa collinosa delle Marche” (Carolyn Christov-Bakargiev), e in cui ancora le Marche, nelle persone di Osvaldo Licini e Scipione, offrono un bagaglio stilistico che opta per l’idea di genius loci come soluzione da contrapporre all’omologazione culturale, in un mondo sempre più globalizzato. Il recupero della narrazione, il piacere del racconto, torna poi con la serie di sedici formelle in bronzo, dove l’assenza di referenti favorisce la piena attivazione delle facoltà immaginative, e l’innesco di un circolo virtuoso di alternanza tra scrittura e pittura. Angela Vettese ha già avanzato una proposta intrigante, un’ipotesi di lavoro sicuramente più feconda di un commento distaccato e sterile: “Sarebbe bello, invece, e gliel’ho detto, che un suo catalogo venisse fuori così: lui mostra un lavoro a uno scrittore, a uno scrittore vero e non a me che sono scriba dell’arte. L’altro scrive il primo pezzo di un suo racconto. Cucchi lo legge e prende spunto da quello per un altro suo quadro. Lo scrittore vede e va avanti con la sua storia”. Anche Valerio Magrelli, nel suo contributo al catalogo, ha insistito proprio su questo genere di novità – il ritorno di una vocazione narrativa – che ha caratterizzato l’approccio all’arte della generazione di Cucchi: “per loro – ha scritto Magrelli – si tratta di ricominciare a istoriare una tabula già perfettamente rasa, ricevuta in tale stato dalle generazioni precedenti”. Un ritorno alla storia, in minuscolo, o se si preferisce alla favola, alla leggenda, che prima di essere controffensiva studiata è innanzitutto esigenza intima e inevitabile: Se Cucchi fa quadri, è lui stesso a dirlo, è perché pensa che siano necessari; se Cucchi dipinge, è perché con la pittura, “cosa calda”, che avverte tutto “il peso delle cose”, senza sentirsi nell’obbligo del commentario a posteriori, di ogni letteratura superflua e ridondante. E questo, in conclusione, lui vuole dircelo in faccia, senza troppi giri di parole: Mostra e muori.