Giovanni Robustelli
Giovanni Robustelli. Foto Niko Giovanni Coniglio

“Il più cretino”: Giovanni Robustelli

“Il non capire non è una prerogativa degli scemi, non è il privilegio degli idioti il non capire. È l’abbandono. Essere nell’abbandono non significa essere deficienti, significa non essere, smarrire…”. Se c’è qualcuno che, a parte Carmelo Bene, cui ho rubato quest’assunto, abbia fatto proprio il paradosso di Socrate – quello, per capirci, dell’ignoranza che porta al sapere, anzi al saper di non sapere – questo è Giovanni Robustelli. Disegnatore dotatissimo, Giovanni passa con una leggerezza almeno pari al suo talento dall’illustrazione al cavalletto alla pittura murale, in un flusso continuo di vocaboli e suoni che diventano immagini, che rivelano ambienti e situazioni, che raccontano in maniera vivida, come solo i “cretini” sanno fare, il mistero del reale.

La tua ultima mostra ha per titolo due parole ebraiche, havel havalim, vanità delle vanità. Anche la pittura è vanità?

Qualsiasi espressione della materia, compresi noi stessi, è impermanenza e la vanità ne diviene una conseguenza. Bisogna però concepire il senso della vanitas nel senso dell’accoglienza, dell’ascolto, dell’approccio umile di chi vuole apprendere e amare. L’esperienza vissuta nell’amore aiuta a distaccarsi dall’io e da qualsiasi equivoco dell’ego. La pittura, se non fraintesa, è certamente vanitas proprio perché espressione di meditazione, di ricerca, di esperienza intellettuale (perlomeno per come intendo esotericamente questo termine).

Sovente, nel tuo lavoro, i temi si rincorrono. A cominciare dal trionfo della morte, che avevi già dipinto in una rassegna site specific di arte murale, Bitume: un intervento, non a caso, destinato ad essere distrutto…

In quel caso hai colto perfettamente il senso che aveva per me il soggetto che ho dipinto, il trionfo della morte. Il trionfo amplifica due elementi importanti in quel luogo, ex fabbrica, almeno per me: la conversione e l’imminente distruzione. La prima, la conversione in luogo “artistico”, luogo della memoria, luogo del dialogo, è una veste di cui il bruco non poteva aver coscienza. La morte è prima di tutto simbolo del cambiamento, del passaggio da uno stato di coscienza ad un altro. E poi c’è l’aspetto dell’imminente distruzione di quel luogo, che il trionfo della morte, come monito dell’impermanenza, della fugacità della materia a dispetto dello spirito (eterno), ci ricorda in maniera puntuale.

A giudicare anche solo dai titoli delle tue mostre (Medea, Auto da fè) sembra che la violenza – non quindi la sola morte, ma ciò che la precede – sia ingrediente essenziale della tua ispirazione. Specie se il fluire del disegno e del colore può negarla nel momento esatto in cui la afferma.

Tutto il mio lavoro si pone con un impatto che non prevede mezzi termini. Realizzo i miei quadri senza bozzetti o studi iconografici; Non acconsento ai ripensamenti; i colori sono il risultato di un equilibrio trovato su due piedi, e non meditato e pianificato; i colori risultano sempre accesi, forti, violenti; la pittura vuole mostrare sempre se stessa e mai si presenta asservita alla mimesi. Dove la violenza, se vogliamo definirla in questa maniera, viene maggiormente espressa è durante i live painting sul palcoscenico, insieme alla musica. In un’ora devo dare senso al gesto, al colore, spesso su grandi superfici che mettono a dura prova la velocità di pensiero, la ricerca di equilibrio e armonia. Ma su tutto hai ragione: il mio dissidio tra la rappresentazione e la sua negazione è la cosa più violenta con cui ho da fare.

Hai spesso dipinto a suon di musica, duettando con artisti come Caccamo e Cafiso. Cosa ti spinge a questi “incontri”? Forse un desiderio di confronto diretto con il pubblico che la pittura in solitaria non può dare?

Mi interessa offrire il fianco al fallimento. Durante l’ultimo concerto con Cafiso, al Teatro di Verdura di Palermo, ho dipinto in un’ora una tela di 2×8 m; prima di allora non mi ero mai messo alla prova con una dimensione simile. Tutti erano preoccupatissimi che io fallissi ma l’unico incosciente, che se la rideva e che aveva il mio stesso entusiasmo, era Cafiso e allora ho capito che si poteva fare. Prima di salire sul palco del Verdura non sapevo cosa diavolo rappresentare se non seguire il gesto, di cui mi fido ciecamente, perché riflette quello che sono, niente, e il niente non può fallire.

Praticamente da quando ti conosco adori commentare visivamente le favole e i miti. Perché hai scelto, sinora, di non attualizzarli, di non tradurli al presente?

Non riesco a vivere il tempo attraverso i fatti contingenti, i personaggi, le cose che magari segnano un decennio o un’epoca, un preciso momento storico. Non saprei dirti esattamente da dove viene questo mio atteggiamento, ma il mio sguardo è filtrato dagli archetipi. Cerco nella storia, nel quotidiano, qualcosa che ritrovo solo nei classici, nel mito, nel simbolo. Ho più bisogno del linguaggio, dei significanti, piuttosto che dei significati. Le persone vanno e vengono, ma gli ingranaggi dell’ego rimangono identici.

Cosa pensi – lo chiedo un po’ brutalmente – degli Nft e dell’arte digitale?

Non so di cosa tu stia parlando e non ho il tempo per capirlo. Se si tratta di qualcosa di importante prima o poi busseranno alla mia porta. 

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Ho appena finito di dipingere due tele per la Chiesa dell’Annunziata a Comiso e ho appena ripreso a lavorare a una mostra che esporrò a Milano, presso Spazio Papel. Un lavoro molto simbolico, soprattutto dal punto di vista esoterico e cabalistico; purtroppo non posso dire quale sia il soggetto. Nell’imminente parteciperò a una collettiva a Palermo e a una doppia personale: dovresti saperne qualcosa, visto che le stai curando tu. Dimenticavo, ho illustrato alcuni inediti di Gesualdo Bufalino, che sono stati da poco pubblicati.