Il medico degli artisti: Roberto Gramiccia

Parlare di stato dell’arte col medico degli artisti è un po’ come discutere di una cartella clinica: l’elemento patologico è sempre al primo posto. Mai, però, col sensazionalismo del virologo di turno. Roberto Gramiccia è anche un collezionista, e un critico avveduto: i suoi commenti non si sottraggono a una verifica stringente. Con un’unica (dogmatica?) certezza, enunciata anni addietro nel suo Arte e potere (2014) e ribadita sin dal titolo dell’ultimo Se tutto è arte… (Mimesis, 2019, euro 12.00): “O riteniamo che tutto è arte, e allora l’arte come tale non esiste perché è indistinguibile dal tutto. O riteniamo che non tutto lo sia: e allora bisogna capire che cosa può essere considerato arte. Tertium non datur”.

In molti la chiamano il medico degli artisti. Oggi però, più che gli artisti, è l’arte – ammesso e non concesso si capisca cosa sia – ad avere bisogno di una cura.

Mi chiamano il “medico degli artisti” perché effettivamente mi è capitato di seguirne molti dal punto di vista clinico. Importanti, meno importanti e importantissimi. Volutamente non farò i nomi per sobrietà e riservatezza. Una cosa sola mi piace aggiungere: da loro ho imparato moltissimo. Sia della scommessa del “fare arte”, sia della fragilità che sottende qualsiasi grande impresa: anche la più grande. Su questo tema ho, nel corso degli anni, sviluppato molto la mia riflessione. Sul fatto che oggi l’arte abbia bisogno di cure più dei singoli artisti non vi sono dubbi. L’arte post-contemporanea attraversa un momento di grande crisi. Molta parte della mia più recente attività saggistica si occupa di indagare le ragioni di questa crisi e di suggerire possibili indirizzi per uscirne. Ma la mia voce è piccola e il problema enorme.

Tutta colpa di Duchamp?

Non è colpa di Duchamp. Anzi oserei dire che l’ultimo Duchamp, specie quello che denuncia che le sue posizioni sono state fraintese e strumentalizzate, non c’entra per niente. C’entra, invece, l’epigonismo duchampiano; quello che tardivamente, surrettiziamente e stucchevolmente sfrutta Duchamp per fare affari. Per imporre un modello di approccio all’arte basato su un iper-concettualismo stanco, tardivo e disonesto. Che aspira a trasformare il vuoto in pieno, il nulla in un’idea folgorante. Un’idea secondo la quale “qualsiasi cosa può essere arte”, esattamente la pseudo-verità che provo a falsificare nel mio ultimo libro: Se tutto è arte (Mimesis).

Quando Bonami sostiene che col cesso di Cattelan inizia l’arte postcontemporanea forse non si riferisce tanto all’opera in sé, quanto al suo valore performativo. La fontana di Duchamp crea scandalo al primo zampillo. Poi diventa routine. Andare al cesso di Cattelan è come andare al Luna Park: funziona sempre. A patto, s’intende, di restare bamboccioni.

Il cesso d’oro di Cattelan è l’esempio per antonomasia di quell’epigonismo concettuale a cui facevo riferimento. A meno che non si voglia ritenere una novità “rigenerante” il fatto che sia realizzato in oro (non so se massiccio). L’oro è l’unica novità rispetto a Duchamp. Mi pare poco. Veramente poco.

Lei è convinto che il male risieda nel denaro, nella speculazione. Ma senza i grandi banchieri fiorentini e i papi edonisti del Rinascimento o del Barocco non avremmo avuto Michelangelo, Bernini, Caravaggio.

Il denaro non è il dio Mammona. Non sta nel denaro il problema. Sta nel ritenerlo un fine piuttosto che un mezzo (lo stesso accade per la tecnologia). Ho scritto un libro su questo tema intitolato Arte e potere (Ediesse). La tesi principale di questo saggio è che nel corso dei secoli l’arte ha mantenuto una sua “autonomia possibile” malgrado il potere (in tutte le sue forme) che intendeva condizionarla ferocemente. In questo lunghissimo periodo il danaro della committenza non solo non è stato nocivo ma ha rappresentato la condizione che ha permesso lo splendore del Rinascimento. Quindi, (attenzione!): nessuna demonizzazione da parte mia del danaro in sé e del mercato. Io critico un sistema che negli ultimi cinquant’anni tendenzialmente ha assassinato l’autonomia dell’arte, incatenandola al carro della grande speculazione finanziaria. Giotto era un grande affarista, non per questo è discutibile il suo essere stato un maestro sommo.

Secondo Marco Meneguzzo una grossa responsabilità nell’attuale decadenza delle arti va attribuita al “capitale ignorante”. Lei è d’accordo?

È vero il capitalismo cognitivo attuale è superficiale e ignorante. È figlio del degrado che ha prodotto. Parente stretto dell’analfabetismo di ritorno favorito dalla digitalizzazione esasperata. La tecnologia si sviluppa avendo come fine la propria autoperpetuazione (non il benessere dell’umanità) e questo processo divarica le sorti di un “progresso scorsoio” che molto poco ha a che vedere con la cultura. Quindi Meneguzzi ha ragione.

Il peccato originale, anzi i peccati originali degli artisti, stando allo statuto delle arti che lei propone in Se tutto è arte…, sarebbero sei: uno in meno dei vizi capitali.

Io non ho l’ardire di proporre un rigido statuto dell’arte. Sollevo soltanto un certo numero di punti di discussione. Ne ho sollevati sei ma potrebbero essere di più o di meno. Ho lanciato un sasso nello stagno. Ci ho provato. Del resto ho sempre pensato che il ritenere l’arte un’entità “indicibile” facesse l’interesse di chi sull’arte vuole speculare. Qualsiasi attività umana ha un suo statuto, come cerco di spiegare nel mio libro. Non è chi non veda che il gioco degli scacchi è un’arte: eppure anche questo gioco ha delle regole. Mi si dirà che il gioco degli scacchi non è paragonabile all’arte: e chi l’ha detto? Provate a chiederlo a Kasparov.

Tra questi punti, ve n’è uno problematico: l’adesione alla realtà. Non le sembra un po’ zdanoviano, come precetto? Non finiremo dalla padella del “liberi tutti” alla brace dell’arte di regime?

Questa domanda è utile per chiarire un possibile malinteso. Io parlo di realtà non di realismo. L’arte, quando non è un bluff o una truffa, ha sempre a che vedere con la realtà anche quando è totalmente aniconica. Picasso sosteneva che l’arte astratta non esiste. Perché la realtà è comunque e sempre la materia di indagine degli artisti. Anche quando si presenta sotto forma di sogno o di allucinazione. Quindi niente Zdanovismo. Non c’entra niente il realismo socialista. C’entra semmai la possibilità di potersi esprimere liberamente, senza lacci attorno al collo. L’arte post-contemporanea di cattiva qualità, infatti, non guarda alla realtà. O meglio guarda solo a un aspetto di essa: quello legato agli interessi del mercato, della finanza e del sensazionalismo iper-comunicativo che della finanza è il fedele servitore.

Un’ultima provocazione: CloacaTurbo di Delvoye non è certo il suo lavoro più amato. E tuttavia non le pare un’efficace metafora – e anche una feroce critica – del sistema dell’arte contemporaneo? Preferisce il guano (fortunatamente soltanto immaginario) dei mille piccioni di Maurizio Cattelan?

Di Cloaca Turbo di Delvoye non salvo nulla. Ma ne ho scritto sin troppo. Chi fosse interessato a conoscere le mie opinioni più nel dettaglio può leggere le mie pubblicazioni. Del resto sono coprofobico.

Quale futuro si augura per l’arte, a cominciare dall’arte italiana?

L’arte in generale e quella italiana in particolare, come ho già detto, vivono una crisi che non è solo confinata entro i suoi territori, ma è sociale, economica, sanitaria e ambientale. L’arte si salva se si salva il mondo (e non viceversa). Ma per salvare entrambi dobbiamo darci una regolata. Il sistema in cui viviamo scricchiola paurosamente. La pandemia è solo l’ultimo segnale in ordine di tempo. Un segnale gravissimo se ha convinto persino l’iper-liberismo più sfrenato a fare i conti con se stesso. Ma non basta. Ci vuole un cambiamento più profondo. Per salvare l’arte. E noi stessi.