Trono imperiale etiope, prima metà del XX secolo, Jsira – Sos (2015) e Untitled (2013-2014) diIbrahim Mahama. Foto di Michele Stanzione.

Il cono d’ombra Narrative decoloniali dell’Oltremare

Il rimosso passato coloniale italiano messo in luce dalle opere di dodici artisti contemporanei afrodiscendenti, in mostra al Maschio Angioino a Napoli.

Quali migliori parole per introdurre Il Cono d’Ombra se non quelle di Lidia Curti, co-fondatrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli, alla quale la mostra è dedicata. 

“Il passato rimosso e rifiutato del mondo delle schiave e degli schiavi – nero, africano, arabo, ma non solo – riscrive il senso del presente, disturbando il mondo in cui viviamo. […] Le narrazioni diasporiche presenti nell’Italia odierna riportano alla nostra memoria eventi del colonialismo italiano che non conosciamo o vogliamo dimenticare con le sue leggi razziali, occupazioni e stragi, rompendo la falsa visione di una narrazione bianca e omogenea, più europea che mediterranea.” 

È proprio su questo passato rimosso e sul rapporto tra artisti contemporanei afrodiscendenti ed eredità coloniale che riflette la mostra Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare. Curata da Marco Scotini e nata da un progetto comune di Black Tarantella e FM Centro per l’Arte Contemporanea, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale, con il patrocinio della Regione Campania, del Comune di Napoli e della Mostra d’Oltremare. 

La mostra, aperta fino al 25 agosto, si svolge in un contesto che ha un antefatto storico importante: il Maschio Angioino di Napoli, protagonista tra il 1934 e il 1935, della Seconda Mostra Internazionale di Arte Coloniale voluta da Mussolini per educare il popolo italiano al culto dell’italianità e celebrare Napoli come florido porto coloniale. Attorno ai fossati di Castel Nuovo erano stati ricostruiti per l’occasione dei villaggi arabi completi di moschea con minareto e mercato, sulla scia degli zoo umani che si vedevano in quel periodo, mentre nelle sale all’interno del maniero si trovavano le opere di artisti provenienti da tutta Europa. Tutto ciò lanciava un messaggio chiaro: le mura del castello restavano un confine invalicabile per i colonizzati, i quali, nonostante la loro vicinanza, non sarebbero mai riusciti a scalfire la civiltà occidentale. 

Grazie all’approccio archeologico che contraddistingue la pratica curatoriale di Marco Scotini, si è scoperto che le due sale ospitanti Il Cono d’Ombra – l’Antisala dei Baroni nell’ala nord al primo piano e la Sala dell’Armeria al piano terra – erano dedicate, nell’esposizione del 1934-35, rispettivamente all’arte contemporanea e ad una sezione sul libro, tematiche che sono state mantenute dal curatore. La volontà è quella di creare una contro-narrativa, che metta in dialogo e in contrasto, materiali di archivio con le opere di 12 artisti contemporanei appartenenti alla diaspora africana ed esposte proprio in quelle stesse sale, risignificandole. Il desiderio non è parlare di artisti afrodiscendenti, ma con artisti afrodiscendenti affrontando tematiche come il potere, il genere, la rappresentazione e il corpo. 

Il Cono d’Ombra si apre, nell’Antisala dei Baroni, con una gigantografia a parete di una foto in bianco e nero dell’ingresso alla Seconda Mostra d’ Oltremare e con altri materiali d’archivio, come cartoline e biglietti d’entrata, che ne restituiscono il contesto storico. Nella prima sala, ai dipinti di artisti invitati alla mostra coloniale come Giuseppe Casciaro e Gaetano Bocchetti, o pittori dell’Ottocento esposti nel 1934-35 come Cesare Biseo e Augusto Valli, si connettono le opere degli artisti contemporanei. I lavori di Nidhal Chamekh, esposti su palinsesti tubolari di rimando industriale in netto contrasto con il carattere della sala, presentano una visione frammentata dell’identità contemporanea, composta da schegge miste di politica, storia, archivio e avvenimenti autobiografici. Le opere del giovane artista Jermay Michael Gabriel riflettono sul passato coloniale italiano tra memoria e rimozione, reso da vecchi manifesti d’archivio razzisti presentati con dettagli di foglia d’oro e bordi strinati. Nella seconda sala, dedicata al genere, convivono le sculture di Mario Montemurro con i collages di Amina Zoubir e la sua archeologia del corpo femminile razzializzato e colonizzato, vittima di una duplice oppressione sia patriarcale che razziale. Le cartoline di nudi femminili neri e sessualizzati sono contrastate dai lavori di Pamina Sebastiao, che decostruiscono il genere in chiave non binaria, e dalla fotografia provocatoria di Kiluanji Kia Henda, ispirata alla pittura tradizionale – con un forte rimando all’Olympia di Manet – che riflette sull’assenza di rappresentazione del nudo maschile nero, nella storia dell’arte occidentale. Già dalla seconda sala, è possibile intravvedere un suggestivo scorcio della terza sala nella quale è presente il trono del Negus, che prese parte alla Triennale di Oltremare, inserito nel giusto contesto, con alle spalle i paramenti di iuta di Ibrahim Mahma a sottolineare il rapporto tra forme di potere ed economia del lavoro. 

La mostra prosegue nella Sala dell’Armeria, nella quale i materiali d’archivio sono in dialogo non solo con le opere degli artisti, ma anche con l’architettura. Il bellissimo pavimento trasparente, infatti, lascia scoperti gli scavi archeologici sottostanti e restituisce una perfetta metafora dell’indagine archivistica. I souvenir della Seconda Mostra Coloniale sono associati ai Poupée di Pascale Marthine Tayou che uniscono materiali organici ispirati alla cultura africana con altri, come il vetro di Murano, e personificano l’idea di sovrapporre culture diverse per trarne arricchimento. Le riviste e le pubblicazioni storiche sono in contrasto con le opere di Delio Jasse, costituite da assemblaggi di fotografie e documenti di archivi personali che raccontano e denunciano l’oppressione coloniale. Presente in questa sala è anche il libro cucito dall’artista Muna Mussie, realizzato in collaborazione con Scuola delle Donne e inteso come luogo d’incontro, come “tessuto sociale”, costruito grazie alle storie e al dialogo tra donne di diverse provenienze. 

È con questo contrasto tra passato e presente che la mostra chiama in causa la storia ingombrante – e mai fino in fondo affrontata – del colonialismo italiano. La presunta “innocenza bianca” è messa in crisi dalle contro-narrazioni presentate dagli artisti in mostra. Queste ultime fanno emergere tracce spettrali della nostra storia coloniale, ancora troppo spesso invisibilizzate, che ritornano a farci sentire la loro urgenza nel presente. Ecco che i passati irrisolti, interdetti, dimenticati, tornano come una malattia a chiedere di essere curati. Per questo motivo, con questa mostra, si è voluto gettar luce sul cono d’ombra che per lungo tempo è stato il passato coloniale italiano e tentare, secondo le parole del curatore, di “spingersi nel futuro a partire dal passato”.