Le icone di Francesca Nesteri sono non icone, sono il rovesciamento delle icone originali. L’artista va contro la fede, e così facendo la attesta. Credo quia absurbum: è questa la finestra da cui si affaccia l’assoluto. In che senso non sono icone? Cercando sulla Treccani, la prima definizione che si dà di questo lemma è “Immagine sacra (rappresentante il Cristo, la Vergine, uno o più santi) dipinta su tavoletta di legno o lastra di metallo, spesso decorata d’oro, argento e pietre preziose, tipica dell’arte bizantina e, in seguito, di quella russa e balcanica”. Si tratta dunque di un oggetto religioso, che non ha niente a che spartire col ritratto occidentale.
Per i monaci d’oriente, le icone sono semplici orazioni. Il monaco prega e dipinge. In modo analogo il fedele contempla, annullando se stesso nel chiarore rivelato. Perciò dalle icone non si attendono mimesi, abbellimenti, variazioni sul reale. La verità che esse ci offrono risponde a un codice in cui i colori, i gesti, le espressioni, che si ripetono uguali da millenni, sono messaggi cifrati per accogliere l’ignoto. In Occidente, da Giotto in avanti, anche limitandoci a commentare soggetti religiosi, è tutta un’altra storia. Il fondo oro di un Polittico di Piero non indica l’assenza dello spazio, ma la sua esaltazione. È lo strumento attraverso cui i corpi dei santi appaiono tangibili, nodosi come statue. E, una volta consentita la resa dei volumi, la strada alle emozioni è spalancata.
Le icone di Francesca sono appunto icone “emozionali”: studi su stati d’animo, caratteri, sentimenti passeggeri. Una ricorda una smorfia dello psicopatico di Messerschmidt, un’altra l’Urlo di Munch, un’altra ancora una sagoma di Scarfe per The Wall dei Pink Floyd. E, ciò che più conta, tali emozioni sono rese attraverso inserzioni di materia: con l’oro che apre il buio come un Taglio, o il buio che si fa solido, rugoso come una Combustione. L’icona classica nega la materia, quella di Francesca insinua il dubbio che proprio quest’ultima sia l’ultima frontiera. E tuttavia, vincolata al presente, l’icona lo rende a sua volta sacro, irripetibile, divino. Non rimandando ad altro che a se stessa, non corre il rischio di mutarsi in feticcio. Diventa lo specchio – oscuro o abbagliante, appiccicoso o respingente – in cui cercare il nostro sguardo.