Giorgio Griffa, Canone aureo 365, 2020, acrilico su tela, 48x69 cm. Courtesy Galleria Lorcan O'Neill. Ph. Studio Giorgio Griffa

Giorgio Griffa, L’artista come medium

L’artista torinese Giorgio Griffa, classe 1936, è il protagonista dell’ultima mostra organizzata da Galleria Lorcan O’Neill a Roma. Le opere esposte, dagli anni Settanta fino ai periodi più recenti, forniscono un convincente quadro d’insieme della ricerca artistica del pittore.

La Galleria Lorcan O’Neill presenta, dal 22 febbraio 2022 fino al prossimo 22 aprile, l’ultima mostra personale dell’artista torinese Giorgio Griffa (n. 1936). I lavori esposti nelle due sale dello spazio in Vicolo dei Catinari coprono un arco temporale che va dal 1968 – anno della sua prima personale torinese di Galleria Martanoai momenti più recenti del suo percorso. Quella di Griffa è una carriera estremamente longeva, che ha dovuto, va detto, fare troppo spesso i conti con letture deviate e alcuni fraintendimenti imperdonabili. “Confesso che non amo questa definizione […] Il massimo della presunzione penso fosse proprio l’epoca dell’arte che definiva se stessa”. È il 1984 e, in dialogo con Claudio Cerritelli, quello del pittore torinese non sembra essere nulla se non malcelato disappunto. Ciò che appare, a tutti gli effetti, come il lamento di un incompreso, deve la sua ragion d’essere alla tenacia con cui un malinteso diffuso, quello relativo alla sua adesione alla Pittura Analitica,sembrava essersi fatto strada nel dibattito critico. Un equivoco duro a morire, come testimonierebbero, del resto, i carteggi dell’artista con Lara-Vinca Masini (1973), nei quali l’artista confessava di sentirsi “solo in parte” affine agli esiti di certe ricerche pittoriche. 

La genesi del movimento analitico è presto spiegata: sottoposto al fuoco incrociato dei recenti aggiornamenti in senso poverista e concettuale dell’arte italiana, e in perenne odore di retroguardia, il medium pittorico scelse, da un certo punto in poi – all’incirca dalla prima metà degli anni Settanta – di appropriarsi del paradigma strutturalista di decostruzione del linguaggio, a volte anticipando, altre volte seguendo, la lezione di Filiberto Menna, che dal 1975 – anno in cui la sua linea analitica dell’arte moderna venne data alle stampe – si impose sulla scena come l’assoluto campione di una simile tendenza. “Fare pittura”, scriveva Menna, significa necessariamente “fare contemporaneamente un discorso sulla pittura”. Se la messa in campo dello strutturalismo in pittura coincise, soprattutto all’estero (è il caso del gruppo francese Support/Surface) con un rinnovato slancio utopistico di stampo freudo-marxista e francofortese, quest’ultimo appare ammorbidito nelle prove degli analitici nostrani, maggiormente inclini ai toni appagati dell’autoanalisi e all’inchiesta sulle fondamenta linguistiche della pittura. Oggetto della ricerca degli analitici è il campionario di elementi primari (linea, colore) del fare pittorico – ancora Menna parlava di peinture –  un catalogo non propriamente ricco di proposte che nella sua stessa povertà incubava i germi di una crisi prossima ventura. “Si fa presto a percorrere quei pochi ingredienti elementari”, scrisse Renato Barilli sull’“Espresso” in occasione dell’invito di alcuni pittori italiani a Documenta 6 (1977), vaticinando così’ l’imminente fine di un’avventura condannata dalle sue stesse premesse alla corta gittata. 

Dal canto suo Griffa, che da un lato ha sempre elegantemente declinato qualsiasi ipotesi di compromissione con il “laboratorio asettico dei chirurghi del pennello” (Flaminio Gualdoni), dall’altro è giunto, affidando sovente le sue valutazioni alla pagina scritta, ad esiti di ben altra caratura intellettuale. Particolarmente illuminanti gli spunti su linea e colore: “Dico in modo molto approssimativo che la Storia”, scrive nel catalogo della mostra alla Galleria Bottello di Torino (aprile 1975), “ci ha tramandato la linea come un mezzo per disegnare la forma ed il colore come un mezzo per riempirla”, quando “in realtà […] la stessa differenza fra linea e colore è illusoria perché dipende soltanto dalla larghezza del pennello o dal modo di appoggiarlo sulla tela”. Due elementi storicamente separati, dunque, che tornano a fondersi nella pratica di Griffa. Questa, di conseguenza, va necessariamente a coincidere con l’atto, sorprendentemente semplice e solo all’apparenza banale, di “appoggiare il colore dentro alla tela”. Nulla del sostrato di autorità e presunzione degli analitici è destinato a sopravvivere: la pittura, liberata dal fardello della strumentalità, non è più braccio armato delle smanie cerebrali dell’artista. Egli arriva così a “porsi sullo stesso piano degli altri mezzi fisici che concorrono a far sì che vi sia un colore sulla tela” (Silvana Sinisi, Lieve replicante). Con Griffa l’artista perde il quadro di comando per farsi ingranaggio, o meglio medium: la sua quota di arbitrio si arresta in fase progettuale, nella selezione dei supporti, degli strumenti e dei segni da tracciare sulla tela. “Il mio lavoro, dopo la scelta iniziale, è semplicemente eseguito”, scrive, dimostrandosi ancora una volta in grado di attestarsi su vertici di lucidità estranei all’ortodossia analitica. Al distacco razionale e “attivo”, egli oppone la “passività” di una “scrittura automatica” che si risolve interamente in una processualità senza scopo. Il recupero della centralità del processo, e dunque dell’elemento temporale, informa tutta la metodologia procedurale di Griffa, il quale sceglie di rinunciare alla sconcertante pulizia e levigatezza formale garantite dall’astrazione del telaio e di indirizzare la sua ricerca verso le pieghe e le imperfezioni di superfici di iuta, sgualcite nel loro essere terrestri, “concrete” e povere. Poggiate a terra, di modo da impedire la colatura del colore – un acrilico a base acquosa – queste sono pronte ad accogliere segni di ogni tipo. 

Il primo degli undici cicli della sua pittura, quello dei Segni primari, ebbe inizio nella seconda metà degli anni Sessanta. Vicino al pittore Filippo Scrocco del Movimento Arte Concreta (MAC) Griffa, rimasto colpito dalla Biennale del ’64 – quella che vide il trionfo di Rauschenberg e che (ri)portò la Pop in Europa – cominciò a “considerare i segni come personaggi” e a “dipingere le loro vicende”, come confessa nel recente volume Undici cicli di pittura, del 2021. I segni primari (Dall’alto, del 1968 o Segni orizzontali, del1975), arrestano la loro avanzata per rivendicare la finitezza che li contraddistingue. “Griffa” – puntualizza correttamente Maurizio Fagiolo – “non pensa alla costruzione della Bella Frase ma si interessa semmai ai problemi tecnici dell’interpunzione”; ancora Tommaso Trini (Biografia di un pittore, 1974-75) ribadisce come le sue pitture si identifichino totalmente nel “processo al quale esse obbediscono”. I “segni di interpunzione”, ha confessato l’artista a Hans Ulrich Obrist, possiedono una “memoria” che trascende la specificità dell’individuo, affermando più di recente che le loro sequenze “costruiscono un ritmo”, percorrendo “il millenario cammino dell’umanità, dai ritmi della caccia e dell’agricoltura a quelli del computer”. 

Ai primordi della pittura, alle epifanie di segni isolati (linee, macchie, punti) segue, nella seconda metà dei Settanta, il ciclo delle Contaminazioni. Desideroso di “movimentare i segni primari”, egli intraprese la via dell’ibridazione reciproca dei segni che lo condusse a ragionare su quel concetto di ritmo a cui era stato introdotto, a soli 14 anni, da un quadro di Piet Mondrian.

Gli anni Ottanta segnano invece l’ingresso definitivo del concetto di campo. “Come in natura il mare sta accanto a un granello di sabbia, e una quercia accanto a una margherita”, scrive Griffa, “così nel mio lavoro la scansione ritmica dei segni convive con le campiture senza che occorra alcun disegno compositivo”. I campi esposti in mostra, risalenti a questo periodo (lavori come Campo Giallo, del 1984) rendono evidente una certa apertura del pittore verso la grammatica dell’ornamento, della decorazione geometrica e dell’arabesco, non più liquidati a “vacui tentativi di abbellimento” ma riscattati in quanto portatori di ritmo. L’arabesco, che contiene insieme “il tempo lineare del progresso” e “quello “circolare del pensiero greco”, conserva una certa rilevanza anche nel ciclo che intitola, Tre linee e un arabesco. La serie nasce, agli inizi del decennio successivo, dalla volontà dell’artista di “fissare dei caratteri di genere” e di “costruire una società di opere dello stesso genere”. La nuova società di segni, continua Griffa, avrebbe dovuto fondarsi su un elemento comune, ovvero la compresenza, in ogni “individuo”, di tre linee e un arabesco. A questa società, rigorosamente censita – “presi il quaderno e feci anche l’anagrafe”, confessa il pittore – appartengono ancheil trentatreesimo esemplare (Tre linee con un arabesco n.33, 1991) e il numero 866 (Tre linee con arabesco n.866, 1993). 

Le numerazioni, se nelle linee con arabeschi ancora “fissano l’ordine in cui questa operazione [di censimento] avviene”, nei Canoni aurei (come il n.365 e il n.894, entrambi del 2020) dispiegano tutta la loro deflagrante carica enigmatica. Il numero aureo, spiega l’artista, “è un numero irrazionale […] che non avrà mai termine […] e non arriverà mai all’assenza di un residuo”. “Uno scacco alla ragione”, continua, che sancisce, col nuovo millennio, l’ingresso definitivo dei numeri nella dimensione dell’ignoto. Un territorio battuto anche dagli sciamani, spiega il pittore. “Per entrare in contatto con la parte ignota del mondo lo sciamano mormorava parole incomprensibili, parole senza identità per la parte del mondo a cui non possiamo dare identità”: lavori come Cumoskom (2019), facenti parte del ciclo Sciamano, schiudono la dimensione dell’inspiegabile, quel magma nervoso e renitente alla “leva” della ragione e tuttavia deciso a salvaguardare l’ignoto dell’arte e della poesia, e che nel mito fu di Euridice. “Quando Orfeo si volta a controllare se Euridice lo segue”, spiega Griffa, compie “un gesto razionale di verifica” che è fatale all’amata. Euridice, ovvero il sostrato inafferrabile della poesia e dell’arte, sparisce per sempre. “Noi siamo abituati a guardare attraverso una prospettiva di sviluppo” – ha confessato l’artista a Davide Silvioli – “per cui si raggiunge un risultato e da quel risultato si riparte per raggiungere un risultato ulteriore”. Nessun margine di manovra, tuttavia, sembra essere concesso al raziocinio e alla retorica evoluzionistica del progresso, una via per altri versi promettente ma che – almeno nell’arte – è destinata ad apparire nelle forme del vicolo cieco e a non trovare pellegrini.

Giorgio Griffa
Galleria Lorcan O’Neill
Vicolo dei Catinari,3 
00186 Roma (RM)
Dal 22 febbraio al 22 aprile 2022
Info: http://www.lorcanoneill.com/