Genetica della Forma: intervista al curatore di una collettiva in divenire

Fino al 29 maggio al Museo di Palazzo Collicola è visibile una collettiva, a cura di Davide Silvioli, che riunisce artisti incentrati sul concetto di forma inteso in maniera non tradizionale.

Inaugurata lo scorso 9 aprile e aperta al pubblico fino al prossimo 29 maggio presso il Museo di Palazzo Collicola, a Spoleto, la mostra Genetica della forma presenta una selezione di artisti emergenti e mid-career, accomunati da un lavoro in cui si intravede la definizione di un nuovo e nascente statuto della forma. La mostra, a cura di Davide Silvioli, porta in esposizione lavori recenti di Antonio Barbieri, Giulio Bensasson, Roberto Ghezzi, Giulia Manfredi, Miriam Montani, Bernardo Tirabosco, Medina Zabo, tutti allineati sull’espressione e sulla pratica di una concezione di forma lontana da prescrizioni e schematismi.

FP: Da dove nasce il titolo della mostra e quale significato racchiude?

DS: La titolazione della mostra trae origine dall’aneddoto secondo cui gli scienziati James Watson e Francis Crick, durante lo studio della struttura del DNA, quindi nella scoperta della sua morfologia a doppia elica, sembra furono ispirati – fra smentite e conferme – da alcuni scarabocchi eseguiti da Crick nel suo quaderno di lavoro. Pur nella sua apparente semplicità, questo aneddoto esterna molto sia sulla natura della forma nell’universo molecolare che in quello relativo a qualunque altra scala disciplinare, compresa quella costituita dalla ricerca contemporanea nel campo delle arti visive. Nella fattispecie, i sostantivi di “genetica” e di “forma”, in prima istanza, inquadrano la profondità speculativa dell’impalcatura critica del progetto, che va a questionare una delle nozioni fondamentali della storia dell’arte occidentale (appunto, la forma), quindi un concetto afferente al novero dei caratteri estetici alla base del corredo genetico della nostra cultura visiva. In secondo luogo – leggermente in sottotraccia – i due termini, racchiudendo tutta la complessità del rapporto fra forma e sostanza, fra forma e ambiente esterno, fra forma naturale e forma artificiale, fra forma e sembianza, fra la forma e la sua percezione, trasmettono la radicalità che la ricerca degli artisti e delle artiste qui convocati manifesta unanimemente verso il modo di giungere a lavorare, alle volte indirettamente, sulla categoria canonica della forma, riformulandola in maniera drastica. Pertanto, l’evento è pensato per rappresentare un momento di attenzione su come pratiche artistiche contemporanee stiano rimodulando l’entità della forma nell’opera d’arte.

FP: Cosa accomuna il lavoro degli artisti invitati e quali sono gli aspetti differenti?

DS: Il comune denominatore disciplinare a raccordo di tanta e ricercata diversità è riconoscibile nel fatto che ogni opera presente in esposizione, pur nella valutazione delle specificità metodologiche di sorta, o ha previsto durante il suo processo esecutivo un grado determinante di insubordinabilità a qualsivoglia prescrizione formale oppure lo ha mantenuto successivamente alla sua realizzazione. Tale attitudine, già insita spontaneamente nella ricerca rispettiva di ogni artista in mostra, che quindi identifica il tratto ricorrente di ciascun lavoro esposto, è tuttavia svolta assecondando procedimenti, mezzi e tecniche diversificati, fino a rispecchiarsi in creazioni altrettanto eterogenee fra loro, al punto di qualificare il percorso di visita con un lessico inevitabilmente coniugato al plurale, dotato di un notevole indice di diversità interna. Dunque, in sintesi, le soggettività sono parificate dall’impiego di metodi che, talvolta addirittura prescindendo dal controllo dello stesso autore, sperimentano strumenti, procedimenti, materie e materiali, ora innovativi e ora tradizionali, talvolta ibridandoli, fino a creare nuove destinazioni estetiche caratterizzate da una qualità formale quantomai incline a permeabilità, influenze e contaminazioni; quindi tutt’altro che conclusa.

FP: Come si delinea, allora, l’allestimento delle opere dei sette artisti all’interno del piano mostre di Palazzo Collicola?

DS: Sulla base di quanto sostenuto, le opere di Barbieri, Bensasson, Ghezzi, Manfredi, Montani, Tirabosco, Zabo incarnano sette direzioni di ricerca che argomentano in maniera adeguata e generalizzata le premesse teoriche della mostra. Scandito, come un dettato, lungo altrettante sale del piano terra del Museo, l’allestimento svela non solo come ogni artista concepisce il proprio operato in funzione della verticalità della propria ricerca ma anche come la stessa sia in facoltà di relazionarsi con uno spazio museale fortemente connotato, dunque molto distante dal regime di neutralità imposto dalla consuetudine del white cube. È affascinante notare come questa organizzazione degli spazi abbia permesso l’emersione di consonanze cromatiche o concettuali inaspettate fra le opere ospitate e le salienze strutturali dell’antico edificio. Così, all’unisono del ritmo delle sale, gli interventi transitano dalla scultura al lavoro a parete fino all’installazione, ugualmente a sette diverse parole di un medesimo fraseggio, arrivando, infine, a sfatare il pregiudizio secondo cui l’arte contemporanea di ricerca non sia in grado di confrontarsi coerentemente con realtà storicizzate o istituzionali.

FP: Quali sono le caratteristiche dell’esposizione e delle ricerche degli artisti che risultano di maggiore attualità rispetto alle tendenze dell’arte contemporanea?

DS: Indubbiamente, quanto presentato dagli artisti e dalle artiste con cui è stato possibile conferire al progetto una tale indole, fornisce uno scenario sintetico ma puntuale, nonché teoricamente piuttosto esaustivo, di come la categoria classica della forma sia tuttora in fase di revisione da parte della contemporaneità artistica. Dunque, il modo con cui ognuna di queste ricerche è prima intrapresa e poi sviluppata costituisce un contributo utile per verificare le possibilità d’espressione dell’ipotesi di forma che è a fondamento dell’esposizione. In ultimo, al fine di porre ulteriormente in rilievo l’aderenza fra le particolarità delle opere in mostra e la configurazione dello scenario artistico corrente, occorre segnalare che sebbene le pratiche di Barbieri, Bensasson, Ghezzi, Manfredi, Montani, Tirabosco e Zabo rivelino pariteticamente l’impossibilità di essere direttamente riferibili alle nomenclature precostituite di un vocabolario critico contemporaneo sempre meno capace di maneggiare le differenze, d’altro canto, il loro denotabile coefficiente di interdisciplinarità, che a un primo sguardo poco attento può essere equivocato come sintomo di incongruenza con quanto oggigiorno è reputato di tendenza, se scrutato applicando una visione più profonda, lascia intuire, per converso, che è proprio tale attitudine a iscrivere il sentire delle loro poetiche all’interno di un preciso sottoinsieme della contemporaneità che, seppur interstiziale, odora di futuro più di ogni altro.   

FP: Qual è il concetto di forma che il progetto punta a descrivere?

DS: La mostra, a partire dalle proprietà estetiche delle opere incluse nel progetto, argomenta la sussistenza di una categoria di forma, nata in seno alla ricerca artistica contemporanea, ormai in potere di affrancarsi del tutto dalla rigidità del precetto classico di “euritmia”, da quello razionalista di “esatta composizione”, dal comandamento moderno del “Less is more”. Un’entità formale che, sensibile alle pulsioni congenite delle proprie materie costitutive, pertanto indisciplinabile a qualsiasi pretesa di compiutezza o definizione, si apre all’effetto instabile di stimoli e operazioni che, per loro natura, ne alterano qualsivoglia possibilità di ordinamento.

Genetica della forma intende registrare l’affiorare di una classe di forma alternativa dell’opera d’arte, ravvisabile come l’esito del concorso mai governabile dell’esercizio di impulsi endogeni ed esogeni. Ne deriva una nozione di forma coniugata al gerundio, complessa, che non stabilisce gerarchia fra i propri apparati narrativi, perché svincolata da scopi didascalici o utilitaristici. Essa abbandona il rigore della codificazione a vantaggio della caducità dell’empirismo, affievolendo il carattere assoluto della rappresentazione a favore della relatività dell’espressione. Un concetto di forma esonerato dalla coercizione degli impianti schematici del pensiero, dunque non apollineo ma dionisiaco, che risarcisce il conflitto con il rispettivo contenuto.