“All’inizio degli anni novanta ho cominciato a comprendere che il rapporto con l’industria seriale poteva aiutarmi a raggiungere nuovi esiti artistici”. Acquisendo maggiore dimestichezza con “nuove tecniche di piegatura, stampaggio dei materiali, riproduzione dei suoni”, l’artista Luciano Bertoli innalza, attorno alla metà del decennio, delle strutture metalliche dallo spiccato sviluppo verticale. Uno di questi totem macchinici, Il criterio fondamentale, del 1995, apre il percorso della mostra che Fondazione Palazzo Magnani ha voluto dedicare al maestro, nato a Reggio Emilia nel 1940 e purtroppo scomparso da tre anni a questa parte: “La mostra dedicata a Luciano Bertoli – così Maurizio Corradini, presidente della Fondazione – si colloca in pieno nel solco tracciato in questi anni dalla Fondazione Palazzo Magnani, per la grande attenzione rivolta al rapporto tra artisti e correnti nazionali ed internazionali da un lato, e figure che, formandosi e operando a Reggio Emilia nella seconda metà del Novecento, con tali istanze hanno saputo dialogare costruendo un proprio percorso di grande rilievo”.
Curata da Martina Corgnati, e allestita dal 21 settembre al 24 novembre 2024 nelle sale di Palazzo Da Mosto, l’ampia retrospettiva sull’artista – la prima occasione espositiva in seguito alla morte, occorsa nel 2021 – copre un arco temporale che dai primissimi anni Settanta giunge sino alla produzione più tarda di Bertoli, raccogliendo al suo interno anche un denso corpus di lavori pittorici, avviato a partire dagli anni ’90 e tuttora inedito: è infatti la serie dedicata all’insieme di Mandelbrot, fisico polacco a cui si deve la scoperta dei frattali, a costituire il cuore della rassegna intitolata, per l’appunto, Frattempo. Le curve di Mandelbrot.
Introdotta da prove già mature, come Il criterio fondamentale o come Felix (1993), al pianterreno, la mostra si dipana, tra le varie sale del livello superiore, in un percorso che rispetta la progressione cronologica della carriera dell’artista, a cominciare dalle prove grafiche, dagli assemblaggi e dalle installazioni concepiti attorno alla metà degli anni ’70.
È in quel periodo, infatti, che Bertoli approda a un linguaggio ben definito e riconoscibile centrato attorno al tema della macchina. Un espediente iconografico che, come notato da Enrico Crispolti, si eleva a simbolo dell’intera civiltà industriale. Di conseguenza, ogni lettura individuale nei confronti della macchina si pone automaticamente come giudizio complessivo sul contesto sociale ed economico di riferimento: se “la ‘macchina’ è l’emblema della società industriale” – così Crispolti nel catalogo di una personale di Bertoli dell’89 – allora “le oscillazioni di accettazione o negazione della macchina non sono altro che giudizi d’accettazione oppure di contestazione o di rifiuto radicale dell’industrialismo contemporaneo”.
Quella di Bertoli, prosegue Crispolti, è una postura profondamente ironica, già nel profilo ondulato della Simonetta Vespucci ritratta da Piero di Cosimo: la silhouette della donna, ripetuta all’ennesima, genera un’aggregazione dal ritmo incostante, un affollamento che altro non è se non l’indistinzione vera dell’uomo e della donna contemporanei, che non sono più uomini e donne ma “formiche”, come recita il titolo di un lavoro di questi anni (Albero per formiche, 1973).
Nello stesso periodo, il problema della macchina inizia ad essere messo a fuoco, da Bertoli, in maniera del tutto autonoma. Le opere di fine anni ’70 segnalano una progressiva aggressione dello spazio circostante, dell’ambiente esterno al piano pittorico e alle due dimensioni – pur rimanendo soggetto prediletto anche della ricerca grafica del maestro – e sintetizzano alla perfezione, tanto negli assemblaggi (qui, la terza dimensione emerge dalla superficie senza “colonizzare” lo spazio aereo e terrestre) quanto nelle installazioni (qui, al contrario, la propagazione dei materiali si spinge fino alla superficie pavimentale e al vuoto atmosferico) il modello della macchina celibe, orfana di un funzionamento, di uno scopo individuabile. Eppure, la formulazione dell’artista, che parla di macchina gnomo come di una “umanizzazione del meccanico attraverso l’insinuazione di un’organicità a sua volta embrionale e grottesca” (Crispolti)sottolinea quanto la dimensione del plausibile non sia poi così peregrina: “il meccanico – continua il critico – ha qui un’allusività di ironia fantascientifica spaziale, ma riportata a quel margine di realismo […] che ci è permesso da realizzazioni e progetti non molto improbabili delle macchine di approdo e motilità su superfici lunari e siderali”.
Assai difficile risulta, infatti, saper estrarre, dalla poetica e dal corpus artistico e grafico di Luciano Bertoli, il coefficiente ironico di disillusione dal barlume di ottimismo nei confronti del progresso scientifico e tecnologico. Quanto, nei titoli dei suoi disegni – dalla macchina che risolve i problemi della gente al distillatore ermetico di essenza d’amore, dal travasatore di fantasia a quello di intelligenza – ci parla di reazione ironica a una stortura, che è in buona sostanza l’eccessiva fiducia nella tecnica? E quanto, invece, suona piuttosto come un invito a procedere, a tentare l’inesplorato?
Se non è ancora possibile travasare qualità e proprietà tipicamente umane, e se si ha la generale convinzione che le prime macchine di Bertoli, di ascendenza futurista (si pensi alle virtuosine) e dada, lascino intravedere la componente ironica e comica come elemento preponderante, ciò non significa che l’avventura nell’ignoto non possa costituirsi, in ogni caso, come direzionalità metodologica: negli anni ’80, Bertoli abbandona rotelle, tiranti e pulegge, ma soprattutto di materiali più consoni, a vantaggio di una sperimentazione risolta in primis nella presenza, sul tavolo di lavoro, di un armamentario mediale del tutto nuovo: “ora Bertoli lavora preferibilmente materiali nuovi, taluni ancora desueti nelle botteghe degli artisti – così’ Massimo Mussini, nel testo in catalogo della personale reggiana dell’86 – e s’inventa processi, sperimenta miscele, trasforma con il fuoco, ‘scioglie e coagula’ come un antico alchimista”.
Le “ricette” dell’artista, in questo dato frangente, prevedono con una certa frequenza l’impiego di metacrilato, selenite e luce di Wood; come nella fase precedente, poi, anche nel nuovo decennio Bertoli si appoggia, in un primo momento, alla certezza delle due dimensioni (Sulle strade di Ganimede, dell’83; Selenite con due rette parallele, dell’84), conquistando però lo spazio con rapidità maggiore: il “plastico” della città alcoolica (1985), così come la forma monolitica de La nascita di Hiberno (1985) consentono a Bertoli di lavorare in molteplici direzioni: sulla luminosità endogena dell’opera – grazie all’inserzione di fonti esterne (anche se collocate all’interno della “scatola”) – nonché sul “corredo genetico” di alcuni materiali e sulla loro possibilità di lavorazione. Ancora Mussini, nel suo lungo saggio – ripubblicato nel catalogo della mostra a palazzo Da Mosto, edito da Silvana Editore – ci tiene a circoscrivere la natura “alchemica” della pratica di Bertoli. L’alchimia di cui parla Mussini, in buona sostanza, è un’alchimia del fare, sintetizzabile nel motto del Mutus Liber che è “lege, lege, lege, rilege labora et invenies” (“Prova, prova, prova, riprova affaticati e finalmente troverai”). Questa postura singolare, proiettata al futuro e alla gioia del tentativo, impedisce così di leggere in chiave retrospettiva, e nostalgica, lavori come i suddetti, dove una città mitica non è mai totalmente orientata al passato, e dove l’homo custodito nella teca è in realtà una proiezione del momento di svolta – di “accensione”, si potrebbe dire – che, senza agganciarsi a un referente mitologico preciso, concretizza la fase in cui uno stallo si trasforma nell’illuminazione propedeutica all’azione vera e propria.
Ancora negli anni ’80 – specificamente, nel 1985 – Luciano Bertoli torna alla pittura, e lo fa sfruttando appieno gli input visivi ricevuti dalla ricerca scientifica. È sulla copertina di «Scientific American» dell’agosto ’85, e sul numero 206 de «Le Scienze» (pubblicato in Italia nell’ottobre dello stesso anno) che egli scopre la restituzione in immagine dell’insieme di Mandelbrot. Benoît Mandelbrot era un matematico polacco, che rese evidente la geometria dei frattali (The Fractal Geometry of Nature, 1975) imprimendo, a distanza, una svolta decisa al sentiero artistico del maestro reggiano: il contatto con quelle immagini scientifiche fu una folgorazione per Bertoli, al punto da avviare un processo di revisione concettuale e formale della sua arte: “ero attratto fisicamente dal groviglio cosmico delle particelle subnucleari – commenta l’artista – ciò che accade nella fisica quantistica nel processo di entanglement, le particelle prima unite, poi separate, il loro comportamento istantaneo seppur lontanissime l’una dall’altra”. In un testo dal titolo, mutuato da Albert Einstein, che è già paradigma operativo (L’immaginazione è più importante della conoscenza), Bertoli scopre le carte precisando uno scopo del tutto nuovo: “Il mio desiderio, difficilmente raggiungibile, sarebbe far conoscere i segreti della natura quantistica, portandola visivamente in primissimo piano sul set della vita”.
Sul piano pratico, le intenzioni dell’artista si traducono nella serie Frattempo, che per la prima volta lascia le stanze della casa-studio di Bertoli nei pressi di Canossa. In dialogo con Martina Corgnati, prima della sua morte, è l’artista stesso ad aver chiarito l’intenzionalità che fonda un blocco di lavori che, dalla fine degli anni ’80, si è protratto fino allo scorso decennio: per “frattempo”, afferma, egli intende “il tempo con il prefisso (fra) – lo spazio di tempo che intercorre tra due fatti”. A livello formale, il corpus di Frattempo si definisce come un insieme di ricorrenze e differenziazioni, di analogie e scarti, dove un sostrato di matrice materico-informale accoglie emergenze sferiche, curvilinee, libere di avanzare oltre lo strato superficiale come di sprofondare al suo interno, di connotarsi come entità autonome o di porsi al servizio della missione figurativa, descrivendo globi che sono anche occhi nei volti di gatti o di uomini. Il collasso tra microbiologia e scala antropomorfa è chiarificabile a partire dal concetto di entanglement. Ancora Martina Corgnati, nel contributo introduttivo al catalogo, parla di come l’entanglement preveda che “se vedi una certa situazione qui sai che c’è anche là, anche se là è in un’altra dimensione. È una correlazione a distanza fra sistemi che implica, contro l’evidenza intuitiva, il carattere non locale della realtà fisica”.
Lo shock derivante dalla coscienza del tutto provoca, in Bertoli, un certo affievolimento della sua indole ironica, che, nonostante non venga mai del tutto a mancare, inizia ad unirsi ad un “dolce tocco d’amore”. Ed è la quota di amore disvelata nell’ignoto che consente a Bertoli di liberare un gesto e un tocco più spontaneo, e di mettere da parte il piglio del narratore onnisciente, dello scienziato che, giocando con la materia, con il linguaggio e con i significati, tradisce comunque una certa esigenza di controllo. E tuttavia tale pretesa, proprio in nome della scienza, è un gioco a perdere, specialmente “se in una qualunque molecola del legno del tavolo su cui scrivo queste parole – conclude la curatrice – si spalanca un abisso quantico infinito non meno profondo, anzi assoluto, di quello che apre il visore del più potente telescopio elettronico puntato su un punto buio dell’universo”.
Luciano Bertoli
Frattempo. Le curve di Mandelbrot
a cura di Martina Corgnati
21.09 – 24.11.2024
Palazzo Da Mosto
Via Giovanni Battista Mari, 7
42121 Reggio Emilia
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e-mail: info@palazzomagnani.it