Il tema centrale dell’edizione 2024 è il dialogo tra arte, innovazione e sostenibilità, riflettendo sulla crescente attenzione verso la responsabilità ambientale e il ruolo dell’arte nel sensibilizzare il pubblico su temi globali.
Lo spazio imponente dell’Arsenale, pur reinterpretato, respinge ogni concetto di iconicità. Accoglie artisti di ogni nazionalità, età e background e abbraccia una vasta gamma di discipline artistiche, tra cui pittura, scultura, installazioni, fotografia, arte digitale, design ambientale e paesaggistico, videoarte, cortometraggi e arte urbana.
Malgrado le numerose potenzialità offerte da un tale spazio, l’allestimento è gestito in maniera fortuita, cosa che non ha consentito un’efficace simbiosi della pluralità tecnica, stilistica e concettuale delle opere esposte, oscurando così anche le opere degne di nota. Risulta altrettanto mancata la ricercata esperienza immersiva, considerando che le poche opere interattive presenti non raggiungono le aspettative e che le performance sono state gestite in maniera caotica e disordinata, non riuscendo così nell’intento di coinvolgere i visitatori.
Tralasciando le lacune curatoriali, l’eccesso di palesi rimandi picassiani e le riproposte dell’arte povera, pop ed etnica, con sfumature talvolta kitsch, possiamo focalizzarci su alcuni interventi artistici incentrati sui temi della sostenibilità e dell’innovazione, trattati con approcci innovativi e suggestivi. Appare inquietante il relitto architettonico The cube of misery di Oscar Riveros che, strappato dal proprio contesto, galleggia in un’atmosfera oscura e minacciosa, trascinando via con sé le sue “radici” ormai senza vita. L’opera pare ispirarsi a Laputa – Castello nel cielo di Hayao Miyazaki, ma proponendone una lettura opposta e meno idealizzata. Lisha Liang con Identity dissolution riesce ad attivare riflessioni altrettanto suggestive e pessimiste attraverso la sconvolgente antropizzazione del bosco, simulando un horror metafisico ottenuto anche grazie ai forti contrasti di bianco e nero. Consapevolmente provocatoria nei confronti del concetto di sostenibilità ambientale ed etnica, è l’installazione assemblata con strutture che possono ricordare enormi mattoncini lego; si tratta di una scena decostruita e carica di simbolismi che rimandano a conflitti etnici, ideologici e di genere.
Dominante è poi l’installazione Ice Age con protagonista un frigorifero, osservabile da più prospettive e angolazioni, di Jingyun Wang intenzionata a sfidare l’immensità dello spazio ospitante. L’opera mira a lanciare una serie di messaggi allegorici sul ruolo della tecnologia tra passato e futuro, l’impatto dell’uomo sull’ambiente e la sopravvivenza delle specie.
Tra le opera indicative di un clima inclusivo vi è la comune sedia in paglia di Vienna, Inspired by thonet presentata da Mateus – Berr Ruth e Scharler Pia, che si adatta alle esigenze della disabilità, rompendo la mancata diversità che contraddistingue i manufatti del settore.
Colpisce l’originalità della cabina telefonica intitolata Conversation with my deepfake dad di Sarah Sweeney, uno spazio ibrido fra realtà virtuale e realtà aumentata che, attingendo all’Intelligenza Artificiale, gioca tra il passato e il presente, la vita e la morte, il sogno e la realtà.
Dalla lunga carrellata di pitture e fotografie esposte in sequenza su pannelli allineati staticamente emerge Nuts and crackers di Anikò Bosa, un’opera contraddistinta da una vitalità giocosa che focalizza i particolari e attribuisce importanza a tutto ciò che è piccolo e apparentemente insignificante, attraverso giochi cromatici e dimensionali. Un’analoga dimensione fiabesca incontriamo nella tela di Maria Helena Brzozowska col titolo A Venetian dream che colloca le figure in maniera naif, rifiutando ogni concetto di prospettiva.
Se dovessimo attribuire un titolo alternativo al premio di quest’anno, il più consono sarebbe quello dell’inclusività, poiché le tematiche della diversità vengono interpretate come un valore aggiunto in una società che abbraccia l’inclusione. Tale tesi viene confermata anche dalla scelta di premiare Tanda Francis, che abilmente promuove la poliedricità delle differenze, un concetto che a sua volta richiama il tema della sessantesima Biennale Arte di Venezia, e che si ispira alle opere dell’artista statunitense Simone Leigh, esposte all’interno del Padiglione degli Stati Uniti durante la cinquantanovesima esposizione della Biennale.
Possiamo concludere che l’Arte Laguna Prize avrebbe tutti i presupposti per diventare un’esposizione internazionale degna della sede ospitante, qualora curasse in maniera più selettiva le partecipazioni artistiche e le scelte curatoriali ed espositive.