ARCO Lisboa
Franco Angeli
Franco Angeli, Paesaggio con giallo cromo, 1982, tecnica mista su tela, cm 140x90, collezione privata.

Franco Angeli dalle “lagrime delle cose” all’autoritratto come marionetta

Il Wegil di Trastevere, polo culturale della Regione Lazio, presenta, in un’ampia antologica, la trentennale vicenda artistica di uno dei padri della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”

Il Wegil, polo culturale della Regione Lazio in Largo Ascianghi, a Trastevere, ospita, dall’8 dicembre al 26 marzo 2023, Franco Angeli. Opere 1958-1988, prima grande retrospettiva romana sul pittore, romano anche lui, nato il 14 maggio 1935 in via dei Piceni a San Lorenzo. Curata da Silvia Pegoraro, e realizzata da LAZIOcrea in collaborazione con l’Archivio Franco Angeli, la mostra, voluta dal collezionista Aldo Marchetti, ripercorre, con settantaquattro pezzi unici provenienti da collezioni private (alcuni dei quali finora inediti) i trent’anni dell’avventura artistica di uno dei pittori riuniti attorno alla “Scuola di Piazza del Popolo”, quel nucleo di artisti passato erroneamente alla storia come la declinazione italiana della Pop Art; un’etichetta “odiosa agli interessati”, come qualsiasi altra “etichetta genericamente cumulativa e, in sostanza, impropria” (Maurizio Calvesi, 8 pittori romani, Bologna, galleria de’ Foscherari, 1967). Al di là del marchio facile, e fuori da ogni proposta unitaria di sintesi, analizzare i trent’anni della parabola pittorica di Franco Angeli (nato Giuseppe Franco Gennarini) e rintracciarne dei capisaldi e dei motivi di continuità, significa addentrarsi in un’impresa non facile a compiersi, specie se si tiene conto del momento in cui tale traiettoria ha preso il via. In Italia, la proposta artistica dei secondi ’50 è inevitabilmente condizionata dall’insofferenza verso l’Informale. Contro gli eccessi di individualismo patetico, contro il “monologo confessionale” di un movimento che, per Enrico Crispolti, si era fatto accademia di comodo, la nuova generazione di artisti, di cui Angeli faceva parte, si era messo alla ricerca di nuovi segni e di un immaginario condiviso.  

I lavori d’esordio Angeli – che non frequentò mai alcuna Accademia o Istituto, e che esordì, nel marzo 1959, in occasione di una collettiva con Tano Festa e Giuseppe Uncini alla galleria La Salita – risentono del fascino dei Catrami di Alberto Burri, conosciuto per il tramite di Edgardo Mannucci, scultore il cui contatto risale all’esperienza militare a Orvieto. Il debito nei confronti del maestro umbro – ravvisabile anche nella scelta dei titoli, come in E da una ferita scaturì la bellezza, del ’57, richiamo quasi letterale all’omonima monografia su Burri – si concretizza nell’aggiunta di inserti in tessuto. Se la familiarità del pittore con i tessuti va arretrata all’esperienza giovanile in tappezzeria, è un altro evento – di ben altro ordine drammatico – a collocare Angeli sulla scia di Burri, ed è lo stesso: la guerra. A differenza di questi, medico di guerra fatto prigioniero dalle truppe inglesi nel maggio del ’43, Franco Angeli, che all’epoca aveva solo otto anni, fu testimone del bombardamento alleato del suo quartiere. Nel 1989, in un’intervista con Gabriella De Marco, di quel periodo Angeli non ha potuto non ricordare quegli attimi, indimenticabili per un bambino che, suo malgrado, si era trovato a fare i conti con “l’orrore, la gente buttata sui camion” e che avrebbe convertito il dolore della ferita nella bellezza dell’arte. «I miei primi quadri – spiega – erano così, come una ferita dalla quale togli dei pezzi di benda […] dove il sangue si è rappreso ma non è più una macchia rossa». Nel senza titolo del ’58, tra i primi lavori in ordine di apparizione, sono ben due i “tagli” in via di guarigione: chiudendo la composizione sui due lati, questi vengono divisi da alcuni inserti rettangolari in tessuto, applicati direttamente sulla tela, che restituiscono l’idea di una materia che, già nei primi tempi, veniva sottomessa a logiche di pulizia formale e di chiarezza compositiva e cromatica.

Franco Angeli, Zona Cesarini, 1987-88, tecnica mista su tela, cm 130×160, collezione privata.

Quello sul colore è, in Angeli come in Lo Savio o Schifano – per rimanere a Roma – un altro discorso centrale: la fondazione di una nuova pittura, spiega Laura Cherubini nel catalogo della mostra, aspettava solo una sgrossata, una mano di bianco (o nero) decisa a cancellare i virtuosismi di una pasta e di un colore esibiti in modo evidentemente troppo plateale. Il ragionamento sul monocromo era poi un discorso più profondo sul binomio luce-colore, allora al cuore della speculazione teoretica dell’avanguardia milanese: ancora a Gabriella De Marco, Angeli ha chiarito come «un quadro monocromo non è poi di un “solo colore” ma al contrario può avere una superficie dinamica, movimentata da variazioni, trasparenze se la stesura è data in modi differenti». 

L’attenzione data all’elemento percettivo condusse Angeli a sperimentare nuove soluzioni materiche. Le calze di nylon tese, viste in occasione della prima personale romana, quelle “lagrime delle cose” di cui il scrisse il poeta e critico Cesare Vivaldi, erano per l’artista ciò che restava dei corpi mutilati dalla guerra; dei ricordi, dunque, che tuttavia chiedevano cura, protezione, e che necessitavano di un luogo sicuro dove nascondersi. Angeli scelse perciò un particolare tipo di garza, il calicot, per sottrarre gli strappi alla piena vista: la garza, infatti, trattata con gesso, tempera e vinavil, funzionava da schermo, da filtro e da “diaframma”, consentendo all’artista di ottenere «la materia e allo stesso tempo il rifiuto della materia». In mostra, lavori come Ostinazione (1959), Trasparenza, del’ 60 o ancora Allegri Moribondi, dell’anno successivo, permettono un’ottima lettura di questa particolare fase produttiva di Angeli, vicino anche all’idea di negativo fotografico (un’opera è per l’appunto intitolata Elementi negativi) e all’immagine “morbida”, otticamente meno nitida, ottenuta nel cinema per mezzo di un diffusore di luce – il cosiddetto “velatino” – posizionato sull’obiettivo fotografico. Nel suo contributo in catalogo, Silvia Pegoraro parla di Angeli come di un pioniere della critica ai nuovi media e del regime di trasparenza, che troverà pieno compimento nel decennio successivo. Diversamente dal «velo come scintillante packagingdell’oggetto», spiega la curatrice, quello di Angeli è da intendersi come strato del mistero, come pellicola che lascia spazio al non detto. Altro precedente teorico di Angeli è poi, in questo momento, il pittore ceco Josef Istler, presente, con una sua opera, nell’appendice fotografica del volume La fantasia dell’Arte nella vita moderna (1955) curato da Piero Dorazio. Con intento analogo rispetto ad Angeli, anche Istler aveva selezionato stracci e ragnatele per dare una forma poetica alle lacerazioni dello spirito e della carne portate dalla guerra. Contrariamente ai lavori del primo, però, composizioni come Pittura evocativa erano policrome. Conosciute, tuttavia, solo attraverso una stampa in bianco e nero, queste perdevano l’accensione tonale per acquisire valori chiaroscurali più accentuati e una maggiore evidenza della forma. 

I primissimi anni ’60 sono anche quelli dell’araldica politica, con ogni probabilità il tratto più riconoscibile della sua pittura. Adottando la strategia del prelievo, messa in atto da altri artisti, come Kounellis, che in quegli anni lasciava emergere dalla tela bianca le parole del mercato (vino, olio…), anche Angeli assorbe i ritmi della strada, le presenze iconiche e le sopravvivenze della storia millenaria della sua città. «I miei primi quadri – afferma – sono la testimonianza del contatto quotidiano con la strada. Vidi i Ruderi, le Lapidi, simboli antichi e moderni come l’Aquila, la Svastica, la Falce e Martello, obelischi, statue, Lupe Romane sprigionare l’energia sufficiente per affrontare l’avventura pittorica». Sempre meno gradita alle “lucciole”, per dirla con Pasolini, e, al contrario, bombardata con forza sempre maggiore dal grande moloch massmediatico e commerciale d’oltreoceano, l’Italia – e Roma in primis – stava comunque riuscendo a tenere botta, puntando sull’impareggiabile stratificazione storica e sul suo illimitato patrimonio iconografico per conservare larghe zone d’autonomia rispetto all’ospite scomodo. A Roma, dunque, il “reportage” di cui parlava Calvesi (Ricognizione e reportage, “Collage”, 1965) – ovvero tutta quella parte di nuova pittura fortemente condizionata dalla rinnovata iconosfera urbana – si mescola al documentario, alla visita guidata in centro storico. Tano Festa, altro membro della “Scuola”, ribadiva, in un’intervista a Giorgio De Marchis (1967), che se “un americano dipinge la Coca Cola, come valore per me Michelangelo è la stessa cosa nel senso che siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo la Gioconda sui cioccolatini”. Come scade il cioccolato, però, scade anche la forza politica di un’immagine, o almeno questo è ciò che accade nella ricezione indifferente e alla conseguente legittimazione di un senso unico di lettura. Nello specifico, la lupa capitolina, comunemente associata ai natali di Roma e riassorbita nella narrazione da pax augustea, viene riportata, da Angeli, al centro di un dibattito mirato a smascherare l’epica falsificante di un periodo connotato, al contrario, dal ricorso alla violenza sistematica, giustificata da un’avidità senza pari. La lupa di Angeli del ‘64 sbava, gronda del sangue dei sottomessi, mostrando il lato mostruoso del potere e le fauci dell’impero. Sporchi di sangue sono anche il becco e gli artigli dell’aquila – altro animale fatto proprio, in ogni epoca, dalla retorica del comando, presenziando a Roma come negli Stati Uniti e affacciandosi persino dalle tribune del Reich. L’aquila compare, poi, anche nella serie degli Half dollars, presentata nel 1965 alla Galleria Zeno di Verona, con testo di Maurizio Fagiolo, che l’associa ai «nuovi miti del ‘Ku Klux Klan’». 

Nello stesso anno, Fagiolo firma, su «Marcatré», un articolo cruciale. Il testo, Per una figurazione novissima, riprende, nell’aggettivazione, il poeta novissimo, tracciato, nel profilo, da Alfredo Giuliani. Superando anche la proposta di Cesare Vivaldi – che nel 1957, su «L’esperienza moderna», aveva fornito i caratteri della “nuova figurazione” avanzando anche un primo registro anagrafico (Capogrossi, Vedova, Accardi, Turcato…) – Fagiolo individua in Franco Angeli e Mario Schifano una nuova temperatura espressiva, delle “nuove ipotesi espressive” che sono “disarticolate e vibranti”. In opposizione alla smania di riempimento della cultura visiva odierna, queste “nuove ipotesi” concedono alla tela momenti fisiologici di silenzio, ampie zone non colonizzate, alternando queste ultime a spazi di disponibilità per la parola, una presenza indubbiamente debitrice delle frequentazioni dell’artista. In quegli anni, infatti, Angeli si era legato ad alcuni tra i nomi più illustri dell’avanguardia poetica romana (Mario Diacono, Elio Pagliarani, Cesare Vivaldi, Nanni Balestrini), e se in un primo momento i suoi sforzi si diressero nella direzione del ritaglio e del collage – come in O.A.S. (tutti cattivi i tedeschi), del 1961 – più avanti nel tempo la parola acquisì una sua consistenza pittorica. Il sodalizio con Diacono e Pagliarani, poi, si concretizzò anche in prodotti artistico-editoriali particolarissimi: il libro d’artista Poema 63, concepito nel 1964 assieme a Diacono e dalla tiratura minima (cinque copie) e l’altro libro, questa volta progettato con Pagliarani, prodotto in tre sole copie ad oggi introvabili. 

Nei suoi esiti più strettamente pittorici, le lettere di Angeli ricordano, «nella fattura anonima, ottenuta con stencil e mascherine – come ha specificato Raffaella Perna su «Flash Art» – gli alfabeti di Manzoni, le lettere di Schifano o Jasper Johns». Nella seconda metà dei ’60, poi, con l’intensificarsi della lotta politica, la pittura di Angeli si fa ideologicamente più chiara. La vicinanza di Angeli all’ideologia comunista, che tuttavia non gli impedì di prendere le distanze dalle frange ufficiali in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, è esplicitata nei lavori su tela (o su carta applicata su tela): qui, la tecnica dello stencil crea dei pattern, delle costellazioni simboliche che vedono l’ingresso di altri elementi (stella, falce e martello). In quegli anni l’impegno politico di Angeli, declinato sotto forma di critica al regime scopico dei nuovi media, si tradusse nell’adozione di nuove tecniche espressive, come il video (Schermi) o la performance. In Opprimente, presentata il 14 maggio per il Teatro delle Mostre della Tartaruga, il soffitto ribassato della galleria, assieme a una videocamera collocata in un angolo della stanza, vuole denunciare il senso di soffocamento e di controllo pervasivo che i nuovi media causano nell’uomo contemporaneo. 

A cavallo tra ’60 e ’70, poi, i quadri “politici” di Franco Angeli giungono a esiti linguistici pressoché analoghi alle ricerche di Mario Schifano. Le folle a monocromo di opere come Souvenir, infatti, richiamano molto da vicino la serie del Futurismo rivisitato di Schifano, dove il contrasto cromatico tra bianco e nero permette, ancora per mezzo dello stencil, la riconoscibilità delle sagome umane. La pittura di gesto dei Paesaggi anemici di Schifano, poi, riappare anche al di fuori del comizio pittorico, come nella Cortina, nella Primavera o nel paesaggio Atmosferico esposti in mostra. A Schifano, la mostra riserva anche l’omaggio personale: il ritratto dell’artista, del ’73, è una summa straordinaria di alcune tra le cifre peculiari della Scuola di Piazza del Popolo: dall’esibizione sfacciata del tratto grafico e dalla matita “promossa” a pennello, all’adozione, per lo sfondo, di larghe campiture à plat; dalla scelta del formato tipografico standard all’autocoscienza di una pittura che cola, che esonda dai limiti geometrici – in questo caso, un quadrato nero nell’angolo superiore sinistro – per rivendicare il suo spazio di autonomia. 

Le esuberanze materiche di Schifano hanno un certo peso anche nei quadri più tardi, caratterizzati in alcuni casi dal contrasto destabilizzante tra la verve delle cromie e le forme, nere, delle flotte aeree che portano la morte nel Vietnam, delle squadre volantiche conservano, tuttavia, quella componente ludica che porta a Boetti e ai suoi cieli scarabocchiati a biro.  

I profili di quegli stessi aerei, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, vengono ricavati dai ritagli di giornali e messi in formazione. La carta – e in particolare quella delle pagine di «Lotta Continua» o «Paese Sera» – è dunque promossa a supporto, offrendo al pittore uno spazio da riempire con i simboli soliti e talvolta, in controtendenza rispetto alla stagione d’esordio, con un certo gusto del palinsesto, della sovrapposizione, e con un’inedita vocazione all’horror vacui già vista in alcuni lavori a smalto dei primi anni del decennio. 

Nei lavori su tela, infine, l’ultimissimo Angeli torna in un certo senso “metafisico”. Alcuni tra i suoi aerei solcano infatti agglomerati elementari, sorvolano paesaggi urbani ridotti all’osso, alla squadratura (Casa rossa con piramide, 1985-86). Il disegno progettuale prende qui totalmente il sopravvento, sia nelle visioni d’insieme di solidi universali (Rudere, 1987-88), sia nel dettaglio frontale di costruzioni più verosimili, come la facciata – probabile – di una delle due chiese “gemelle” di piazza del Popolo, fiancheggiata dal profilo esatto dell’obelisco (Pazzia, 1986-1988) intuibile, nel disegno, da una sottile linea di contorno bianca che rompe il nero di superficie (Obelisco, 1988). 

Metafisico il teatro, metafisici gli attori. A partire dalla metà degli anni ’80, e fino alla morte dell’artista, avvenuta il 12 novembre del 1988, Franco Angeli, “il solitario”, come ha scritto Adachiara Zevi nel suo commiato sul «Corriere della Sera», prende le sembianze di un manichino, di un pupazzo che – spiega Silvia Pegoraro – altro non è che la persona etrusca, la sostituzione simbolica dell’io reale con l’io mascherato, con ciò-che-sta-al-posto-di, unico stratagemma possibile per sopravvivere nella società dell’immunizzazione preventiva, in un sistema di potere che, mettendo «in opera una strategia preventiva immunizzante […] chiude radicalmente lo spazio vitale dell’intrusione dell’alterità». 


Franco Angeli. Opere 1958-1988
a cura di Silvia Pegoraro
8 dicembre 2022 – 26 marzo 2023
WEGIL
Largo Ascianghi, 5 00153 Roma
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