Qual è il significato della parola figura? A cosa ci riferiamo quando affermiamo, il più delle volte con troppa leggerezza, di raffigurare, o di aver visto raffigurato un oggetto, un corpo o un evento? La collettiva pittorica Figure out, allestita negli spazi di galleria 1/9unosunove dal 15 settembre al 22 ottobre 2022, tenta di offrire uno sguardo nuovo, una prospettiva “generazionale” a un interrogativo, quello relativo all’identità della figurazione, estremamente ostico e per sua natura refrattario ad ogni proposta unitaria di sintesi. Sfruttando l’ambiguità semantica sottesa alla locuzione assunta a titolo del progetto – il verbo inglese “to figure out”, traducibile con “comprendere”, “risolvere” – i cinque artisti esposti in mostra (Andrea Bolognino, Verdiana Bove, Natacha Donzé, Elia Fidanza, Pietro Moretti, tutti nati tra il 1991 e il 1996) intraprendono un dialogo in cui le specificità dei percorsi individuali convergono, stimolandosi e valorizzandosi vicendevolmente, nel tentativo di “risolvere” – a modo loro – i nodi irrisolti di una problematica sulla quale si è pronunciata, nel corso del tempo, gran parte della migliore tradizione filosofica occidentale.
Prima di addentrarsi nel merito delle singole proposte, tuttavia, è necessario fare chiarezza sulla natura della questione messa in campo. È corretto, in linea di massima, approcciarsi alla figurazione come a un problema da risolvere? Si può ragionare sull’immagine in questi termini? In greco – ricorda Remo Bodei (La vita delle cose, 2009) – il problema altro non è che è “un impedimento che, interponendosi e ostruendo la strada, sbarra il cammino e provoca un arresto”; in latino, il problema si fa oggetto, e crea “una sfida, una contrapposizione” in quanto “vieta al soggetto la sua immediata affermazione” e “obietta alle sue pretese di dominio”. Ricorrere al termine “problema”, dunque, implica che la relazione tra figura e spettatore sia a senso unico, e che debba inevitabilmente concludersi con il “possesso” e la “manipolazione” della prima da parte del secondo, “padrone” del senso ultimo dell’immagine pittorica “secondo la semiologia assicurata – apodittica – d’una diagnosi medica” (Georges Didi-Huberman, Davanti all’immagine). E se il dominio dell’uomo si è storicamente compiuto nell’esercizio della forma estetica prima ancora che nella costruzione di codici linguistici, risulta però assai improbabile stabilire una consequenzialità temporale tra i due livelli, tracciare un percorso coerente o persino azzardare dei nessi causali. È ancora Didi-Huberman, infatti, a lamentare una simile condizione: “Spesso” – scrive – “mentre posiamo il nostro sguardo sopra un’immagine d’arte […] ciò che ci appariva chiaro e distinto è solo il risultato di una lunga deviazione – una mediazione, un uso di parole”. Al di là di affrettate ricerche genealogiche, però, e lontana dal voler chiarire i termini di un rapporto così complesso, la mostra intende offrire ai visitatori un ventaglio eterogeneo di proposte, ognuna incisiva nella sua capacità di presa su questioni specifiche. Il lavoro di Verdiana Bove (Roma, 1996), ad esempio, svela tutta l’inconsistenza di alcuni steccati categoriali, primo fra tutti quello che contrappone la figurazione all’astrazione. È la stessa realtà pittorica – spiega l’artista – ad essere “fatalmente astratta per sua natura”, e lo è perché lo spazio dell’arte è inevitabilmente il terreno dove la figura non è rappresentata bensì evocata per mezzo di approssimazioni, di medie statistiche costruite a partire da un vocabolario comune, da un patrimonio condiviso di forme che fonda l’atto comunicativo intersoggettivo. L’astrazione, come la figurazione – la stessa parola figura ha la sua radice nel latino fingere (“modellare”, “plasmare”) – è, perciò, un attributo necessario della pittura, un carattere che, applicato anche al codice linguistico vero e proprio, permette di dare lo stesso nome tanto al “cane delle tre e quattordici (visto di profilo) quanto al “cane delle tre e un quarto (visto di fronte)”, per rievocare le disavventure di Ireneo Funes “El memorioso”. Se il protagonista dell’omonimo romanzo borgesiano era “incapace di idee generali, platoniche”, e se il suo era un mondo fatto di “dettagli, quasi immediati” che immagazzinava vividamente al punto da poter “ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia”, Verdiana Bove, dall’altra sponda del fiume, ci restituisce il suo personalissimo universo di immagini dove, a partire da un’elaborazione avviata dall’archivio fotografico personale, i pochi, ma significativi frammenti che nuotano in un fondo indifferenziato emergono in un disegno essenziale, svelando la natura astratta tanto dell’arte quanto della memoria, riaffermando che nulla due volte accade (titolo proposto dall’artista per due dei suoi lavori) e che la pittura, al di fuori da ogni desiderio di certezza, è ancora “il territorio, spesso misterioso, dove è ancora possibile porsi delle domande”. Ugualmente legato alla dinamica degli affetti è Pietro Moretti (Roma, 1996), che porta in mostra cinque lavori (tre grandi olii e due acquerelli di dimensioni ridotte). Affiorando da uno spazio liquido e indefinito,anche i personaggi di Moretti, dei quali l’autore non nasconde – come già dichiarato in un’intervista pubblicata su “Juliet” – “le fragilità, l’imbarazzo e le incoerenze nel corpo”, fungono, mediante l’impiego di tonalità acide, ipersature e mediante il ricorso a evidenti sproporzioni anatomiche, da cassa di risonanza di agitazioni esistenziali generalizzate. Degli “archetipi emotivi collettivi” (Giulia Giambrone, Le ragioni della pittura. Considerazioni universali a partire da realtà particolari a Roma, “Juliet”, 4 febbraio 2022), enfatizzati dalla dimensione inquieta dell’adolescenza richiamata tanto nei temi – l’attimo di ribellione de I galleggianti, la consapevolezza del corpo “poroso” e la sua presenza nello spazio (corpo poroso), la simbiosi emotiva che fonde quello stesso corpo con un altro in un abbraccio sinergico (tra i tuoi vuoti) – quanto nell’inclinazione allo storytelling. Se “il raffronto diretto tra Bove e Moretti rimanda a un legame più stringente con le tematiche della figurazione” (dal comunicato stampa) nell’altra sala – la prima in ordine d’accesso – le opere “rarefatte, concettuali e installative” di Elia Fidanza, Andrea Bolognino e Natacha Donzé “sembrano quasi disintegrare e disperdere l’oggetto riconoscibile della pittura”. Elia Fidanza (Monfalcone, 1996), artista di base a Ginevra, dispiega un’unica, grande installazione che occupa, nella sua interezza, la parete lunga opposta all’ingresso. Le quattordici tele di For fear and disappear (2022), rovesciamenti distopici di scene popolate da personaggi dell’immaginario disneyano, vengono associate a brevi frasi in grado di innescare corrispondenze tra testo e immagine e di forzare l’atto interpretativo sino al limite del paradosso. “Contro l’intellettuale” – ha scritto Régis Debray (vita e morte dell’immagine, 1992)– “l’artista si esalta ad artigiano, gioca l’opera contro il linguaggio”, opponendosi a quella “rimonta in noi delle parole” che è condizione sofferta, sintomo di una “culturalizzazione” immediata della visione. Nei due acrilici di Natacha Donzé (Boudevilliers, 1991), sui due lati corti della stanza, le parole tornano invece ad arrancare: la figura, in Donzé, mette ulteriormente in crisi la nostra presunzione, la ricerca affannosa di un contenuto esplicito: se nella teoria della percezione la figura altro non è che “il contenuto percettivo colto unitariamente all’attenzione e staccato da uno sfondo più o meno indifferenziato”, in opere come Emotional Forecast o All day, eating flowers è proprio grazie allo sfondo monocromo che dei vapori accennati, delle linee di fumo, o forse ancora delle aurore – previsioni (“forecast”) di un contenuto per l’appunto emotivo, tutto interno alla coscienza – riescono a prendersi la scena. Gli scenari post-apocalittici (come in Automa-Autore) di Andrea Bolognino (Napoli, 1991), sono paesaggi stratificati, punti di confluenza tra una percezione effettiva, concreta e un viaggio di visione compiuto spesso, e letteralmente, a occhi chiusi. Lo scopo di Bolognino, che già in occasione della prima personale a Capodimonte aveva chiarito come per mezzo del disegno cercasse di “incorporare uno sguardo immaginifico e sovrapporre due visioni, interna ed esterna, che vengono a collassare sulla singola superficie”, è quello di riflettere, oltre che sulla distanza incolmabile tra elaborazione concettuale e risultante estetica, sulla natura ibrida dello sguardo, sul relativismo dei punti di vista e sull’implosione dello scalare dei piani prospettici con cui l’odierna civiltà dell’immagine flat ha reso impossibile – anche grazie all’ausilio di algoritmi avanzati – estrarre il contenuto dallo sfondo.
Figure out
Andrea Bolognino, Verdiana Bove, Natacha Donzé, Elia Fidanza, Pietro Moretti
15.09.2022 – 22.10-2022
Galleria 1/9unosunove
Via degli specchi, 20, 00186 Roma
info: www.unosunove.com
e-mail: gallery@unosunove.com
telefono: +39 06 9761 3696