Teste sognanti, MEMORIE IPOGEE, Museo ARCOS|Arte Contemporanea del Sannio, in collaborazione con OFF Gallery, Benevento, 2023, ph. Pablo Donadio

Emanuele Scuotto all’ARCOS. Uno scrigno epifanico in un abisso liminale

All’ARCOS, Museo d’Arte Contemporanea del Sannio, si è svolta la mostra personale Memorie ipogee di Emanuele Scuotto, con la direzione artistica di Ferdinando Creta, la curatela di Azzurra Immediato, il coordinamento scientifico di Francesco Creta, e in collaborazione con la OFF Gallery.

I lavori di Emanuele Scuotto muovono un nesso territoriale che, dalla città di Napoli, si invera all’interno degli spazi dell’ARCOS, a Benevento. Ospitati nell’OFF Gallery – galleria giovane nata, nel 2018, da un’idea di Beniamino Manferlotti, collezionista e amateur d’art, e sita in uno spazio ipogeo all’interno di un cortile di un palazzo storico, nel cuore del centro antico di Napoli e a un passo dalla Cappella San Severo – trovano, per Memorie ipogee, il loro ideale pneuma negli ambienti del museo d’arte contemporanea del Sannio. Il nome ARCOS è stato attribuito al Museo per le sue sale coperte da volte e collegate da grandi archi nei sotterranei del Palazzo del Governo, prima rifugio antiaereo durante la Seconda Guerra Mondiale, poi deposito fino al 1999, anno in cui l’Amministrazione provinciale ne attuò il ripristino per l’uso come superficie espositiva.

La Terra ospita, tra le sue rime, elevate guglie e ancestrali abissi. Nella poetica stretta della sua tempra con un misterico Etereo celeste, si desta la titanide Mnemosine che, traversato il fiume Lete, si rigenera per rinascenza. La dimensione a-storica di Emanuele Scuotto, verso il classico, parla di un inalterabile e perpetuo sistema di valori universali, senza luogo e senza tempo. Rievoca l’antico per tracciarne un archivio dal quale librare, di volta in volta, un rinnovato nucleo espressivo richiamato attraverso ciò che è ferace germinare, nel hic et nunc, in forma evocativa. Nutre l’oggi di un’assimilazione dell’appartenenza del sentire più veritiero nella creazione artistica. Ogni epoca ha la propria forma mentis, ed è necessario liberare dalla nozione di classicismo i diversi “modi” del concepire la vis artistica. Salvatore Settis, in Futuro delclassico”, esplicita come Per dar forma al mondo di domani è necessario pensare alle nostre molteplici radici. Grazie al suo sguardo, Emanuele Scuotto coglie le potenzialità di uno schema iconografico antico e lo pone in dialogo con le radici profonde che segnano il museo Arcos e la città di Benevento, ricordando quella lirica congiunzione che lega l’architettura delle Catacombe partenopee, ai peculiari spazi museali. Il direttore Ferdinando Creta chiarisce, infatti, come Il significato di riemersione è spesso affidato all’arte e ai suoi fautori, tanto da assegnare loro uno sguardo privilegiato sul mondo. La mostra è continuum di un impegno che qualifica la politica museale dell’Arcos, sin da un decennio, per la sua rilevanza nell’ambito del Contemporaneo. La riemersione è anche affioramento e riapparizione, è il portare alla luce accezioni lontane, riposte tanto in una profondità spaziale, quanto intima e afferente al nostro io; è rapporto con un’alterità, una dimensione cultuale che introduce, nel nostro immaginario, visioni in cui la storia e il rituale entrano in contatto con la sfera del nostro sensibile. Come afferma la curatrice Azzurra Immediato, portare a emersione è Dar forma al suo Mundus Novus, con la scoperta, dapprima inconscia poi sempre più nitida nella sua emersione, di una inusitata e sorprendente nuova età della creazione, maieutica di un tempo che coincide con una singolarità ritrovata e riconosciuta secondo i prodromi di una bellezza della solitudine creativa… . Lo scrigno di memorie sepolte in un antro inaccessibile è svelato tramite il lavoro dell’artista che, liricamente, lo sottrae alla coltre del tempo. La trasmutazione della materia duttile che l’artista sceglie per plasmare, in un tempo lungo, l’opera come epifania, nella sua manifestazione finale, è sincronica allo svolgimento del processo agente una ricerca che, da un principio inconscio, esplora infiniti corridoi dell’intelletto, originando l’idea embrionale. L’osservazione ci appare come possibilità di appartenenza e reinsediamento di valori e significazioni che, attraverso la storia, il mito e la tradizione popolare napoletana, tradotti in linguaggio universale, generano perturbazione e dipoi un successivo riequilibrio, nella ricezione all’interno del nostro sistema organico. I sensi dell’osservatore sono rapiti dall’eloquente richiamo dell’aura provocata dalla scoperta del mistero, cinto nei volti e nei corpi scolpiti.

Nell’etra si ravvisano le Teste Sognanti. È, nella continuità della leggenda, che l’umano trova parallelismi con il proprio sentire e proiezioni del sé che si ravvisano nel proprio passato e nel presente, producendo una riflessione in prosieguo per l’avvenire. Ravvicinando la visione ai volti delle anime scolpite, preme l’avvolgimento in una malinconia che revoca i tratti somatici del volto alle Teste, privandole di un’identità, così come le capuzzelle, con le quali si intervallano. Sono anime obliate. La dimenticanza le ha imprigionate nel limbo del Purgatorio e nelle viscere di Napoli. Il contatto arreca un nostro intimo soliloquio, indotto dal pensiero immanente con la morte. La veglia consente il raggiungimento di una natura, in cui la speranza diviene consonanza di ragione di espiazione e dona quel rapporto con la morte che discende in fonte di vita. L’attraversamento del limen scopre il volto di una fanciulla che si riappropria delle sue sembianze, tramite il baluginare dell’oro e dell’argento che assorbono la luce vitale, nella poesia di una delicatezza che ne accarezza l’incarnato. Gli occhi chiusi esprimono la dicotomia tra il visibile e l’invisibile dell’esistenza e un dialogo che si spinge, oltre alla concretezza della materia. Se non si vuole essere trasportati verso una condizione di spaesamento – afferma Stefano De Matteis – conviene concentrarsi sulle opere e osservarle. Con cura e attenzione, fino a una impossibile immedesimazione. …Si dischiude, in un inviolabile e adepto luogo sacro e al centro di un’amena nicchia semicircolare, Monolite barocco, in cui – in un movimento vorticoso – putti privi di ali, seppur sospesi nella materia che li trattiene saldi, sono piccoli eroti che, con positure chiastiche e contorte, partecipano all’impetuoso viaggio dei piccoli satiri. Sensazioni ossimoriche vivono sulla stessa superficie, invitandoci a oltrepassare la res extensa o realtà fisica, per interrogare la res cogitans o realtà psichica. La finezza della lavorazione della struttura, nella sua opposizione tra forma geometrica monolitica ed esplosione dei soggetti dalla corporatura sinuosa, è tributo dell’artista alla maestria dello scultore barocco siciliano Giacomo Serpotta. L’oro che connota i piccoli corpi è sublimazione del dolore mai urlato e sempre elevato a simbolo di una stasi di superamento dello stesso.Il Diavolo nero è diversione beffarda dell’immagine più comune del ‘Principe delle tenebre’; non rimane negli inferi, ove scende ma tenta di risalirvi ed emerge in tutta la sua maestosa presenza, al centro di una veduta, contornata da un arco a tutto sesto. Le sue fattezze sono ricoperte da una mefistofelica epidermide nera. Francesco Niglio descrive il buio materico di Emanuele Scuotto, come Un nero che assorbe tutta la luce per stare bene nell’ombra e lasciarsi percepire prima ancora di farsi vedere bene. L’intuizione barocca di formare il buio che si contorce. Il riso sardonico e l’oro che decora le due protuberanze cornee ci consegnano un’immagine demoniaca ammaliante e seducente per il suo ingegno nel se-ducere, attrarre e trarre via, in altra dimensione, allontanando l’essere dal bene con lusinghe. Gli artigli e la catena, nella loro ombra riflessa, ricordano la schiavitù, alla quale condanna la non conoscenza che spesso tende verso terre oscure. Aldo De Gioia narra, in Napoli dei Misteri, come Luci si accendono, porte si aprono e si chiudono… «E’ ‘a bella ‘Nbriana!…». Si chiama in causa Imbriana, la dea della fortuna, alcuni fanno riferimento ai Padri Lari, carissimi ai Greci, ai Romani e a noi Napoletani. La ‘Mbriana deriva il nome dalla Meridiana e si tinge di oro, in quanto simbolo del sole e del calore domestico. Il fatato spirito appare nell’oro della controra, in un fascio velato e modellato dall’artista, nel suo dispiegarsi al vento. Figura lieve e al contempo temuta, nel suo esser velata ricorda le Teste Sognanti. Al suo cospetto si erge Santa Lucia. Come Artemide è dea della luce che stringe in mano due torce accese e fiammeggianti, così anche Santa Lucia è vergine della Luce, come rivela l’etimologia del suo nome latino Lux. Solo nel XV secolo, la devozione popolare collega la Santa all’episodio, secondo il quale si sarebbe strappata gli occhi per donarli all’innamorato e che, miracolosamente, le ricrebbero, pervasi di fulgida bellezza. L’occhio di Santa Lucia imprime un movimento verso la conoscenza e, come la Bella ‘mbriana, protegge dalle forze sinistre, per mezzo delle sue energie positive. L’artista la cristallizza‘ Protettrice degli occhi’ e, come tramanda la storia, nella sua purezza corporea priva di qualsiasi veste sontuosa, con i due occhi che germogliano da un ramo che si procrea dalla forza generatrice dell’oro della mano e del volto.

Al centro di una grande sala, con arcate a tutto sesto, le Anime del Purgatorio, provenienti da un lontano passato, abitano metaforicamente un non-luogo che ci appare come velo da strappare, per essere nel presente. Dante Alighieri le cita immerse nelle acque per lavar via le colpe terrene e risalire in Paradiso. Colte nell’atto di preghiera, invocano la purificazione per il passaggio all’Eden. L’artista le ritrae scolpite come specchio del nostro tempo. Il riferimento iconografico, pur essendo la produzione artistica seicentesca degli altarini, visibili nelle strade partenopee, è reso con le mezze figure imploranti che non si levano dalle fiamme bensì dall’acqua, riferendosi al dramma del Mediterraneo, la grande fossa comune del nostro Contemporaneo. Simmetricamente disposti, l’uno, dinanzi all’altro, sono il San Gennaro e il Crocifisso. Il volto estatico del San Gennaro si svincola dal peso della gravità terrena, svelando la sua natura miracolosa. Il Vescovo di Benevento fa ritorno, secondo una tradizione antica e tramandata dalla chiesa beneventana nella sua città natìa, da Napoli, ove si è disigillato il Prodigio delle sue reliquie. Per sostenere la mitria, l’artista ha utilizzato la tecnica etrusca del Colombino, senza servirsi di alcun supporto fisico. Si stagliano sull’oro, che ne tinge le membra, frammenti dello scioglimento del sangue, fenomeno foriero di buono auspicio. L’etimologia del nome Gennaro deriva da Ianuarius, radice comune anche al termine Janare. La serratura cilindrica, collocata sulla pietra del busto, ne incrementa l’apertura alla preghiera, attraverso la chiave votiva. Il Cristo, da una dimensione sublime, rientra nella fragile sfera della vita umana, accettandone tutto il dolore e sciogliendolo, nel presente, dal dramma del passato, per indicare l’ammissibilità di una nuova vita. Nella mezz’ombra le Dianaresi sporgono a occhi chiusi, nel mondo terreno, da una materica e viscerale oscurità ultraterrena. Le quattro detentrici del dialogo tra realtà fenomenica e intangibile, seguaci di Diana-Jana, agiscono, talvolta nella residuale sacralità dell’intelletto che le ha distinte nei secoli e che, per la loro forza di sapienza, le ha viste come streghe eretiche da spegnere tra le fiamme ardenti del rogo; talvolta nel malestruo tenebrore degli Inferi. La leggenda riporta le Janare nel Sannio. Il De nuce maga beneventana ricorda, infatti, l’usanza dei barbari di origine germanica di esercitare i propri rituali di notte, intorno all’albero di noce, lo stesso albero delle streghe. Nella Vita sancti Barbati episcopi Beneventani, si attesta che la conversione dei Longobardi avvenne sotto San Barbato, vescovo di Benevento, il quale chiese al duca longobardo Romualdo, come ricompensa del suo aiuto contro l’imperatore d’Oriente Costante II che rivendicava quelle terre, la conversione al Cristianesimo. A seguito del Concilio di Efeso del 436, i Vescovi cristiani attribuirono a Maria gli appellativi della Grande Iside. Nel I secolo d.C. l’imperatore Domiziano dedicò, nella città, un grande tempio alla dea. Dall’Iseo emerge un grande affresco, in cui Iside è raffigurata in prossimità di un albero, attorno al quale è attorcigliato un serpente che, secondo l’immaginario popolare, apre la storia della stregoneria a Benevento, definendo le Janare come discendenti della dea Iside. Alba La Marra le ricorda Ancora martiri, seppur pagane; Dianare, lontane discendenti della dea Iside, la Signora di Benevento venuta da lontano, la cui presenza aleggia ancora nel museo e nella città nonostante i tentativi di cancellarne ogni traccia quando il Cristianesimo ha imposto il suo credo. Le Dianare stabiliscono, dunque, l’ingegno radicato alla base dell’operato dell’artista che determina non solo un legame con la tradizione beneventana ma anche con il tesoro conservato nella Sezione Egizia del Museo, viaggio ideale nel tempio della dea Iside e che giunge fino alla cella della dea, rendendo la città tra i luoghi di eccellenza, in Occidente, per la maggiore concentrazione di manufatti egizi originali.

EMANUELE SCUTTO| MEMORIE IPOGEE 

a cura di Azzurra Immediato

Mostra svoltasi dal 1 aprile al 4 giugno 2023

Museo ARCOS – Benevento Corso Garibaldi,1

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