luca beatrix di Momò Calascibetta

Da che arte stai? Luca Beatrice

Il politicamente corretto vi deprime? Nostalgia di posizioni nette e battute spigolose? Niente paura: i libri di Luca Beatrice (l’ultimo Da che arte stai? è appena uscito per Rizzoli) o, se preferite, quattro chiacchiere con lui su Segnonline, sono la giusta soluzione.

Se sei d’accordo, inizierei con l’Accademia. Come ha reagito a questa interminabile serrata?
Pur attivando lezioni a distanza, ne ha sofferto enormemente. Non vorrei però ci dimenticassimo delle tante scuole di periferia i cui alunni non riescono a seguire da casa per carenza di spazi o perché manca l’accesso alla rete. Dal punto di vista della didattica, ci siamo impegnati al massimo e attendiamo di tornare tutti in aula al più presto. Io peraltro l’ho già fatto. Certo l’online fornisce degli strumenti in più: è possibile invitare ospiti che prima, in ragione dei tempi, dei costi o degli spostamenti, avremmo raggiunto a fatica. Ma la lezione in presenza non si può sostituire.

C’è fame di contatto fisico. Abbiamo rinunciato a troppe cose e forse è arrivato il momento – emergenza sanitaria permettendo – di recuperare.  
Di fronte a un dramma simile, di così ardua lettura, la trappola del qualunquismo è sempre alle porte. E tuttavia concordo. Credo che ricominciare la vita di sempre sia indispensabile, anche dovendo pagare alcuni costi. A me, guardando alla storia, ha sempre colpito questa cronologia: nel 1918 finisce la Prima Guerra Mondiale, con un considerevole tributo di morti, specie in Europa; lo stesso anno arriva la Spagnola, che fa strage in tutto il mondo e, a differenza del Covid, che ha penalizzato soprattutto la popolazione anziana, si accanisce sui bambini. Bene, nell’Italia del 1919 Mussolini fonda i Fasci di Combattimento, don Sturzo fonda il Partito Popolare, Gramsci fonda Ordine Nuovo e nel 1920 c’è la prima Adunata Nazionale degli Alpini.

Come distanziamento, niente male.
Avevamo evidentemente un altro tipo di rapporto con la vita.

Speriamo che la gente non abbia disimparato a frequentarsi. E il sistema dell’arte? Tornerà tutto come prima? 
Da dieci giorni a questa parte la mia mail è presa d’assalto da inviti a mostre che s’inaugurano in tutta Italia. La ripartenza secondo me è già iniziata. Quanto al sistema, è chiaro che alla lunga ciò che è accaduto cambierà il modo di fare arte, così come l’ha cambiato la crisi del 2008 o come lo stanno cambiando le nuove realtà con cui ci dobbiamo confrontare: la questione dell’ambiente, l’umanizzazione della tecnologia. I temi di riflessione sono tanti.

Pensavo più che altro alle fiere, a questi grandi eventi che, almeno per l’anno in corso, sembrerebbero off limits: troppi contatti, di gente proveniente da posti lontani.
Il giro delle fiere è il più colpito, ma voglio anche dirti che a settembre, a Milano, c’è il Salone del Mobile. Incrociamo le dita.

Anche senza fiere, è da un po’ che il sistema si è ristretto, che la periferia si è fatta centro.
In questo momento l’arte più interessante si trova fuori dal mondo occidentale: in Africa, in Sudamerica, in Estremo Oriente. Pensa a ruangrupa: sarà questo collettivo di artisti indonesiani, non uno dei soliti noti, a curare la prossima edizione di Documenta.

Una nuova tendenza, quindi, non la moda postcoloniale del momento. 
Il cambiamento era in atto da prima della pandemia. Le grandi star, come i grandi eventi, hanno smesso da tempo di catalizzare l’attenzione.

O si sono appartate. Jeff Koons, ad esempio, è passato da Gagosian e Zwirner a Pace.
Sì, ne ho scritto su “Il Giornale”: ha traslocato da gallerie di altissimo mercato a una squadra che sa tanto di consacrazione finale. Se il “valore” di un artista non si misura solo in denaro, ma in termini di innovazione, sperimentazione, attivismo politico e militante, Koons è fuori dal dibattito del presente. Perciò preferisce essere storicizzato. E guadagnare tanti soldi in più.

Ma l’arte italiana dà segni di vita o è ormai, come ripetono le immancabili Cassandre, un cadavere insepolto?
A quanti proclamano “Si stava meglio quando si stava peggio” o “Un tempo la cucina era migliore” mi vien voglia di rispondere: “Non sopporti più quest’epoca? Ritirati in campagna! La terra ha tanto bisogno di braccia! Nessuno ti obbliga a dedicarti alla cultura”. Sulla mia carta d’identità c’è scritto “Insegnante”, lavoro con i ragazzi. Trasmettendo questo messaggio ai miei studenti, sarei un irresponsabile e anche un deficiente. L’arte italiana – da Giotto a Michelangelo a Caravaggio al Futurismo a Burri a Fontana all’Arte Povera – ha un grandissimo passato. Per un piccolo paese, che ha conquistato la sua unità appena centosessanta anni fa, è un bottino non da poco. Adesso però il mondo è cambiato. Non basta confrontarsi coi vicini. Negli anni Novanta, quando ho iniziato in maniera piuttosto insistita a occuparmi di arte, c’erano degli artisti di Roma, dove vivevo, che non avevano mai esposto a Milano, e viceversa. Oggi queste barriere non esistono più a livello globale. Certo se tu mi chiedessi se è l’arte italiana la più stimolante, la più ricca di fermenti, ti risponderei sicuramente no. Forse non lo è neppure quella americana. Ma ha ancora senso parlare di arte italiana o americana?

Viviamo davvero in “tempi interessanti”! La Cancel Culture o l’ossessione per il politicamente corretto, sino a ieri fenomeni tipicamente Stars and Stripes, stanno prendendo piede anche da noi. Che te ne pare?
Dovendo girare oggi un film come Via col vento, non faremmo più parlare la Mami in quel modo lì. Ma quel film è stato girato nel 1939. E non si trattava neppure di un film razzista. Era semplicemente una pellicola in cui certi stereotipi della cultura americana dell’epoca, non particolarmente tenera con gli afroamericani, trovavano espressione. Ora, non è che la situazione italiana, in un passato anche più recente, fosse poi così diversa. Io sono nato nel 1961 e vengo da una famiglia per metà del Sud. In quegli anni, a Torino, era facile imbattersi in cartelli con su la scritta “Non si affitta ai meridionali”. Anche i film di Totò usavano un linguaggio per la nostra sensibilità attuale forzato, se non inaccettabile. Cerchiamo quindi di mantenerla, una distanza di sicurezza rispetto alla storia. 

Che però nelle fiction viene ripetutamente calpestata. A me, per dirne una, fanno sorridere certe serie, o certi film, in cui eroi occidentali sono interpretati da gente di colore …
Ricordi il film 300? Anche nel fumetto di Frank Miller da cui è tratto, Serse, il re dei Persiani, era nero. Su licenze come queste non ha senso soffermarsi più di tanto. Altrimenti si rischia di essere ancor più superficiali di quelli che vorrebbero cancellare il bacio del principe in Biancaneve in quanto non consensuale. A questa gente, consiglio la visione di un porno italiano degli anni Novanta, in cui Biancaneve si faceva i sette i nani: Biancaneve sotto i nani.

Per come la vedo io, c’è ben altra pornografia. I nuovi iconoclasti non sono ancora arrivati dentro i musei: ci pensano musicisti e influencer.
Avresti dovuto discuterne con Tomaso Montanari! 

Non sono per la santificazione del museo a tutti i costi, ma vorrei che non si smarrisse la sua funzione culturale.
Hai ragione, ma i musei non sono sempre stati quelli che conosciamo. Non dimenticare che essi nascono come spettacolarizzazione di una certa classe sociale. E poi – me lo faceva notare giusto oggi Christian Greco, il direttore dell’Egizio di Torino – quelli come noi sono un pubblico residuale. Quando non ci saremo più, chi li visiterà? Chi seguirà, tra vent’anni, l’opera lirica o il teatro di prosa? 

Accolliamoci dunque un Fedez o una Ferragni.
Soprattutto la Ferragni. Fedez non lo posso sopportare. 

Scherzi a parte, anche la critica, come il museo, dovrebbe interrogarsi sulla sua azione mediatrice. 
Della crisi dei mediatori ha parlato Baricco nel suo saggio The Game, di cui consiglio vivamente la lettura. Sino a qualche anno fa ti alzavi il mattino, andavi in edicola e compravi “La Repubblica”, “La Stampa”, “Il Corriere”, “Il Giornale”, “Il Manifesto” perché, a seconda del tuo orientamento, ti sentivi confortato dal leggere Sallusti o la Rossanda. Non è che ti identificassi con le loro idee, ma di sicuro condividevi i loro schemi interpretativi. Questo meccanismo si è inceppato, dal 2007 in poi, con la diffusione a macchia d’olio dei social.

Nei social uno vale uno…
Ma nella realtà non è così! Quando qualcuno vuole parlare con me di arte e io mi rendo conto che non ne sa nulla, lo mando a quel paese! Se un creditore non mi paga, vado da un avvocato. Non faccio l’avvocato di me stesso. L’arte non è per tutti. Dell’opinione generale possiamo tranquillamente fare a meno.

E degli Nft, cosa ne pensi?
Mi pare che il lavoro di Beeple abbia un senso. È un’archiviazione del presente.

Ma in realtà l’Nft non è il lavoro in sé, quanto la conferma che il lavoro lo ha fatto lui. È una certificazione indipendente dalla sua fruizione virtuale.
Hai detto bene. Ma non vorrei porre troppo l’enfasi sul mezzo. Ci sono cose interessanti indipendentemente da come siano diffuse conservate o realizzate.

Molto dipende dall’autore. Nel primo Da che arte stai? commentando Italics di Bonami, scrivevi che “L’artista è un re Mida, può fare ciò che vuole, mettere un cesso nel museo (il problema non era certo allora, ma continuare a farlo oggi) o mandarci bellamente in quel posto”. Cattelan, col suo cesso trasformato dal tocco di Mida, ti ha preso in parola. 
Mi dovrebbe pagare! [ride] Nel 2011 Cattelan ha raggiunto il vertice assoluto cui un artista, per giunta italiano, possa aspirare da vivo: la mostra al Guggenheim di New York. Dopo la quale, intelligentemente, si ritira. Ma poi, come è noto, anche per rianimare un po’ il mercato, ci ripensa. Fa persino il curatore. Non è più il Cattelan degli anni Novanta. E neppure degli anni Duemila. Qualche anno fa, alla Biennale di Venezia, mi ha fatto una brutta impressione. Lo vidi vestito da giullare, circondato da un codazzo di persone. Queste cose di solito le fa Sgarbi, ma da sempre. Che il grande Cattelan tiri la volata a Sgarbi…

La gente cambia!
Sì ma c’è modo e modo. Citavi prima Bonami: è da un po’ che non fa mostre, ma è attivissimo su Instagram con lo pseudonimo di Childish Bonamino. 

Ha anche realizzato, con Costantino della Gherardesca, ArteFatti, un podcast sull’arte contemporanea.
Ed è molto ben fatto! Francesco ha imparato anche a parlare.

Non mi resta, a questo punto, che chiederti una liberatoria.
Per l’intervista? [ride]

No, per un tuo ritratto con cui la voglio accompagnare. È pensato per una mostra sul sistema dell’arte che, nella sua versione siciliana, a Riso, ha suscitato polemiche e tensioni.
Tranquillo, non mi offendo.

Neanche se l’artista ti ha vestito da tifoso?
Basta che non indossi una maglietta dell’Inter. In quel caso tremate. Sulla sessualità si può scherzare, sulla politica pure, ma se mi mettete addosso la maglietta dell’Inter non vi mando una diffida: vengo in Sicilia e vi prendo a legnate.