Inaugurata lo scorso 27 maggio e aperta al pubblico fino a giovedì 30 giugno, “Se l’occhio non fosse solare, come potremmo vedere la luce?” è la terza personale di Cristiano Carotti alla White Noise Gallery di Roma. La mostra, a cura di Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti, demarca un autonomo ritorno alla pittura dell’artista, il quale, dopo gli esordi avvenuti proprio nel segno della ricerca pittorica, poi intervallata da un lungo periodo dedicato alla sperimentazione della ceramica, propone in questa circostanza una cerchia di dipinti recenti, posti in sinergia con una tipologia specifica di creazioni ceramiche. Il progetto, così, offre la possibilità di confrontarsi costruttivamente con l’integrità delle soluzioni stilistiche da lui maturate, nel merito degli ultimi anni della sua investigazione, qui – logicamente – riconoscendo alla pittura al funzione di referente estetico prioritario.
La titolazione, ripresa da “La teoria dei colori” di Goethe, scritta nel 1810 in chiave di emancipazione dai limiti del pensiero positivista, racchiude l’entità del sottofondo filosofico che, silenziosamente, connette negli spazi della galleria un’opera all’altra. Si tratta del riferimento a una dimensione generale protesa all’empirismo, all’olismo e alle corrispondenze (le correspondances baudelairiane), al giorno d’oggi per lo più sterilizzata dall’affermarsi dell’approccio computazionale, dal prevalere della tecnocrazia, dall’egemonia del pensiero calcolante (il denken als rechnen heideggeriano). Tendenze, queste ultime, sorte in seno all’attuale civiltà ipermediatica, che hanno progressivamente allontanato la coscienza sia individuale che collettiva dalla consapevolezza nei confronti dell’essenza delle cose, riducendola in uno stato di passività.
Tali premesse, in mostra, si esplicitano professando un’iconografia che guarda all’archetipo, dove la figura dell’essere umano è totalmente assente, al fine di conferire centralità assoluta alle manifestazioni della natura, ai relativi umori, quindi all’immensità del paesaggio con i suoi elementi vegetali e animali. Il tutto è espresso attraverso un lessico dagli accenti stilistici ora volitivi e ora tenui, contrassegnato da tinte cangianti e da ricercati contrasti cromatici, dove il fondersi di segno, traccia e materia nell’irripetibilità di un unico gesto pittorico determina la definizione delle fisionomie.
In tal maniera, il novero di soggetti menzionato e le rispettive ambientazioni selvatiche acquisiscono, nella traduzione di Carotti, il potere aggregativo del simbolo, perciò di un viatico in grado di far accedere alla cognizione di una condizione altra, oltrepassando la superficie del visibile per giungere alle profondità dello scibile. Dunque, la vastità degli scenari appenninici ritratti, di cui si intravedono i dettagli, gli scorci e gli orizzonti, descrivendo efficacemente la superiorità dell’indifferenziato naturale, trasmette tutto il mistero del suo fondamento; il noumeno delle cose.




Ecco, pertanto, che il richiamo alla terra e al cielo, alla flora e alla fauna, così come il rincorrersi di alba e tramonto, dunque di vita e morte, coesistono allo stesso tempo nelle opere dell’artista compenetrandosi nello spartito della medesima superficie dipinta, ugualmente a come ceramica e pittura convergono nei toni del ritmo di un’unica narrazione visiva. Nel mezzo di un linguaggio dotato di un apparato iconografico tanto articolato, è il ripetersi della presenza del cardo che, simile a una costellazione, costituisce lo stigma della ciclicità dell’ordine naturale e della sua isonomia, in quanto parafrasi di rinascita e rinnovamento. Analogamente, il ricorrere del effige del serpente (del genere della vipera) rinvia al principio di mutazione e perpetuità che, come una norma frattale, governa questa rete di equilibri portata alla luce dalla sensibilità dell’artista.
Una pittura in cui, grazie alle mano dell’autore, tutto appare come immerso nel divenire di un fluire incessante; lo stesso che accomuna la porzione più piccola della sua pittura all’infinità del cosmo.