Con la religione andò così!

Con la religione andò così!

«Di Dio non sappiamo nulla, ma è un non sapere di Dio»
(Franz Rosenzweig)

Era la primavera del 1980 (I).

A sera, dopo una giornata come le altre, come quella di tanti altri giorni, andavo a passeggio nella zona «Camaldoli»: la strada principale delimitava l’abitato dalla campagna.

Di giorno si era impegnati a ricercare un po’ di pane, qualche occupazione e una forma di meditazione; dopo la scarsa cena si veniva qui, a scambiare una parola, un parere, un conforto con i colleghi teologi, che si accompagnavano a noi, con le ombre dei gruppi che si incrociavano.

Io spesso trascorrevo questo tempo con un giovane poeta del gruppo di lavoro, sulla filologia teologica: il suo ambiente era la riserva degli aiuti situata a Caivano, in attesa di raggiungere il luogo più colpito dal terremoto nella zona di Bagnoli Irpino.

Andavamo su e giù, non so quante volte; poi, stanchi, ci fermavamo sulla rotonda di fronte all’antico convento. 

L’aria limpida di quel silenzio, in cui l’oscurità era interrotta solo da qualche rada camionetta militare, guidava i canti solitari lontani di qualche giovane assorto nella poesia e nei testi di teologia.

Un ritornello era frequente, e quella sera lo ascoltammo più da vicino:

«Chi sono i tre che cercano la religione? Chi sono quelli che cercano le torri e le Cupole di una grande città? Chi sono quelli che girovagando, camminando e riposando, hanno sognato e guardato, per trent’anni, oltre la cortina? Chi è il povero che, senza un pezzo di pane quotidiano, diviene artigiano in proprio e non ha il tempo di cercare la religione?».

Una lieve brezza conferiva armonia alla nuda melodia del canto, e la voce accorata si protendeva con le onde sonore, alla ricerca della pagina teologica trascritta sul pezzo di carta.

«Primo raccontò della sua esistenza nella grande città; così come se avesse ricercato e studiato in decine e centinaia di biblioteche, nelle sale di conferenze, ascoltando i teologi più famosi. Ma intanto si lamentava, perché non era riuscito a trovare nessun incipit teologico. Aveva cercato, aveva cercato a ripetizione, ma quei volumi di libri si erano trasformati solo in materica libridine. Secondo era affetto da un intrattenimento del verso, da una sostanziale perturbazione del dire e non riusciva a trovare le parole giuste. Il suo aspetto e le sue mancanze affermative facevano ridere gli altri due. Terzo, invece, non fece altro che trovare il suo coraggio. Prima di cominciare a parlare caricava la sua mente, così come se fosse una riserva di energia naturale; provava a raccontare come lo sguardo dominava i suoi sentieri, fino ad arrivare a quella cima del Monte. Tutto quello che era racchiuso nel fuoco, egli si diceva, che poteva essere solo intuito».

L’atmosfera sembrava legare tutto a sé: il nostro silenzio, la nostra ricerca trascesa, i campi, le case illuminate dalle stelle.

«Dobbiamo dare forma alle cose che guardiamo, ognuno secondo la propria prospettiva…» .  Lui il poeta teologo che stava lì lì scrutando il proprio sguardo e il proprio destino. Io lo guardai; non aggiunse altro.

 Restammo a lungo senza scambiarci parola; e intanto il canto completava l’argomento.

 Le dita incrociate nelle dita, tenendo sollevato un ginocchio, lo sguardo rivolto in avanti, egli parlò.

«Sono stato un artigiano della teologia; aspiravo a restare dentro i libri e gli incunaboli. Mi innamorai del pensiero tratto da quei versetti, che mostrava predilezione per le mie intuizioni. Non una sfaldatura, non una deriva, non un ripensamento, insomma non l’oblio, tutte nuove verità… che si sono liberate…».

Si tenne alzato. Rimase concentrato su se stesso.

«Avevo meno di 21 anni. E fui sorpreso e scandalizzato dalla mia incapacità di rinunciare a quei versetti teologici. Da quando ero in Sinagoga, avevo l’abitudine di segnare in un diario gli avvenimenti e le situazioni più legate al ricordo. Quando mi trovai di fronte a quella esperienza, lì per lì, non ebbi il coraggio di trascriverla: avevo il diritto io di disegnare, nel curriculum della mia vita, nel mio travaglio della formazione, una situazione che non era nel ciclo di quella educazione? In seguito, mi ricredetti su questo giudizio: se lottavo per superare una crisi, anche le cadute facevano parte della mia formazione. E poi… che altro potevo sognare e disegnare, da quel giorno?

Ce l’ho quel diario, sgualcito, quello scrapbook marrone, talvolta scritto a matita: ve lo farò leggere al ritorno dal prossimo viaggio presso i terremotati  irpini».

Quella sera ci salutammo con poche parole.

Scorcio fotografico di Santa Lucia di Serino

I tre che cercano la religione

di Walter Benjamin 

Sul colle, sotto il grande abete, tre giovani congiunsero le mani. Guardavano in basso verso il villaggio natio e oltre ancora, dove si perdevano le strade che intendevano percorrere… verso la vita. E uno disse: «Fra 30 anni ci ritroveremo qui e vedremo allora chi di noi avrà trovato la religione, l’unica, vera religione». Gli altri furono d’accordo e dopo una stretta di mano si separano andando in direzioni diverse, lungo tre cammini diversi, ciascuno per la propria strada.

Dopo aver camminato per alcune settimane, il primo vide un giorno davanti a se le torri e le cupole di una grande città. Con rapida decisione vi si diresse, giacché aveva sentito dire meraviglie delle grandi città: che vi erano ammucchiati tutti i tesori d’arte, grandi libri colmi di saggezza millenaria e infine molte chiese nelle quali gli uomini pregavano Dio. Doveva esserci anche la religione. Al tramonto, pieno di coraggio e di speranza, oltrepassava la porta d’accesso… e rimase trent’anni in quella città, indagando e cercando quale fosse la vera e unica religione.

Il secondo imboccò un’altra strada che si snodava fra valli ombrose e basse montagne coperte di boschi. Camminava cantando allegro e sereno e là dove trovava un bel posto si sdraiava, si riposava e sognava. E ogni volta che, assorto nella bellezza del tramonto, o sdraiato sull’erba mentre le nuvole bianche trascorrevano nel cielo azzurro, o nel bosco, quando vedeva improvvisamente luccicare cupo tra gli alberi un lago nascosto, era felice e pensava di aver trovato la religione… Se ne andò girovagando così, camminando e riposando, sognando e guardando, per trent’anni.

Andò peggio al terzo. Era povero e non poteva permettersi di girare con tanta serenità, doveva piuttosto pensare a guadagnarsi il pane quotidiano. Non esitò molto – dopo due giorni già era andato a servizio presso il fabbro di un villaggio per imparare il mestiere. Fu per lui un periodo duro e in ogni caso non aveva modo di darsi alla ricerca della religione. E non fu così solo il primo anno ma anche negli anni seguenti. Infatti, non appena terminato il periodo di tirocinio, non se ne andò in giro per il mondo ma andò a lavorare in una grande città. Qui lavorò intensamente per una lunga serie di anni e quando il trentesimo anno volgeva al termine era sì diventato un artigiano in proprio ma non aveva potuto certo occuparsi di cercare la religione e non l’aveva trovata. Verso la fine del trentesimo anno si mise in cammino verso il suo villaggio.

Il sentiero passava attraverso un paesaggio montano selvaggio e grandioso. Camminò per giorni interi senza imbattersi in anima viva. La mattina dell’incontro però volle salire su uno dei grandi monti le cui cime lo avevano sempre sovrastato durante la strada. Prestissimo, molte ore prima dell’alba, si mise in cammino; la salita però gli riuscì a fatica senza equipaggiamento com’era. Prendendo fiato rimase fermo sulla cima. E nello splendore del sole che sorgeva proprio in quel momento, vide stendersi sotto di lui una vasta pianura… con tutti i villaggi in cui aveva lavorato – e con la città in cui era divenuto maestro. E vedeva chiaramente davanti a sé tutti i cammini che aveva fatto e i luoghi del suo lavoro. 

Non si saziava di guardare!

Ma quando volse lo sguardo più in alto, nello splendore del Sole vide sorgere lentamente tra le nubi, incerto, un nuovo mondo. Cime di monti, luccicanti, bianche cime di monti che si ergevano alte nelle nubi.

Ma c’era lassù una luce ultraterrena, alta e abbagliante e non doveva fissare le immagini con chiarezza in quel bagliore, pure gli sembrò di veder vivere delle forme, e duomi cristallini vi risuonavano lontano della luce del mattino.

Nel vedere tutto questo cadde al suolo, premette la fonte contro le rocce, singhiozzando e respirando profondamente. 

Dopo un po’ si alzò in piedi e gettò ancora uno sguardo su quel mondo meraviglioso che ora si stendeva davanti a lui nel pieno splendore del Sole e allora scoprì, piccoli debolmente segnati, in lontananza, dei sentieri che salivano in alto sui monti fioriti e splendenti.

Quindi si voltò e discese. E stentò a ritrovarsi a proprio agio giù nella valle. Ma la sera di quel giorno arrivò al suo villaggio e incontrò gli amici sul colle. Si sedettero ai piedi del grande abete raccontandosi reciprocamente le loro sorti e come avevano trovato la religione. 

Il primo raccontò della sua vita nella grande città; come avesse studiato e ricercato nelle biblioteche e nelle sale di conferenze, come avesse ascoltato i professori più famosi.

Lui personalmente non aveva trovato nessuna religione, pensava però di aver fatto tutto quello che poteva. «Infatti – disse – in tutta la grande città non c’era una sola chiesa i cui dogmi e i cui enunciati non fossi stato in grado di contraddire».

Quindi il secondo raccontò le avventure della sua vita errabonda e nel racconto c’erano particolari per cui due ridevano apertamente o restavano tesi in ascolto. Però malgrado ogni sforzo non gli riuscì di far capire agli altri la sua religione e non riuscì ad andare oltre le parole: «Già, vedete, bisogna sentirla!» e ancora: «Qualcosa del genere bisogna sentirlo!» E gli altri non lo capivano e alla fine si misero quasi a sorridere. 

Molto lentamente, e tuttora preso dalla sua grande esperienza, il terzo cominciò a raccontare la sua storia. Ma non la raccontò come avevano fatto gli altri, neppure come lui stesso l’aveva vissuta, raccontò invece come la mattina avesse dominato con lo sguardo i suoi sentieri quando era sulla cima del monte. 

E alla fine, ricordò esitando quelle cime bianche e luccicanti: «Penso che quando si può guardare così dall’alto tutto il cammino della propria vita si vede anche la strada che porta a quei monti e a quelle cime abbaglianti. Quello però che è racchiuso in quel fuoco, possiamo solo intuirlo e dobbiamo cercare di dargli forma ognuno secondo il proprio destino».

Quindi tacque.

Gli altri forse non lo capirono fino in fondo, ma non risposero; guardarono invece avanti a sé nella notte incipiente, se per caso intravedessero lontano le cime luccicanti. 

(Die drei Religionssucher, pubblicato in «Der Anfang», n. 20 agosto 1910, con lo pseudonimo Ardor)

Post-Benjaminiana II
(di Gabriele Perretta) 

Il deserto, voglio il deserto che occupa i miei
occhi e tutti i miei nervi,
scorre lentamente nei miei occhi… 
Scendo giù al mare, sulla spiaggia desolata, 
ma non resto molto a guardare il mare, 
torno subito indietro, per non 
perdere la certezza che lui è ancora 
lì, fatto di pietra e sabbia, di giallo e biancogrigio. 
Più avanti lungo la strada si alzano i primi veli, 
sottili veli di sabbia giallo bruna, 
sollevati dal vento, non ancora una tempesta di sabbia, 
ma il primo terribile 
presentimento che la sabbia è pericolosa, che è bella,
che è vuota, che è pura.
Si potrebbe continuare a pensare il deserto, ma a ogni chilometro
è pronto a divorare l’osservatore, è più forte di tutte le immagini che
siano mai entrate nell’occhio. 

Ingeborg Bachmann,

Dopo una settimana era di ritorno. Sull’imbrunire venne lui a casa mia: ci alternavamo sempre. Aveva nelle mani un quaderno ed un block notes e mi salutò, evidenziandoli con quel sorriso mesto che sempre lo aveva segnato ed al quale solo allora diedi un significato.  Aveva premura di uscire, e lo facemmo quasi subito.

«In questa parte – mi disse porgendomi il quadernetto – c’è la mia vita di prima; in questo poi – e mostrò il blocchetto – c’è, vedrai, la nuova traccia della vita, quella in cui non ho mai saputo veder chiaro, incerta dall’inizio alla fine: senza piacere e senza rinunzia, fatta di coraggio e di incapacità di approfondire, di farmi avanti, di scegliere fra quei testi il testo. E non c’è stata una continuità di evoluzione, la mia vita non ha avuto quasi una linearità di programma. Sono così balzato dalla prima adolescenza alla giovinezza piena, con una partecipazione nel gruppo della teologia ebraica: senza idee chiare, sul nulla. E mi sembra sempre di non poter dare un principio alle mie cose, perché in ogni settore, in ogni iniziativa mi sembra che non ci sia il naturale periodo di incubazione. Ho conservato di fronte al mondo quella posizione che per anni avevo avuta: la milizia nell’aristocrazia della virtù. E sono sempre il disertore di un ambiente, il povero di me stesso è il neofita in pantaloni lunghi di un altro.

Poesia! Quando non riesci a selezionare il versetto giusto allora passa alla teologia. Sì alla teologia!»

Finché reggeva la residua luce del tramonto diedi qualche occhiata qua e là sui fogli, facendo precedere la sosta alla passeggiata. Una sosta che si rendeva indispensabile, un traguardo che si fermava in una stasi, in una forma sottile di epochè. Poi fu il buio: e sembrò che ci desse… maggiore coraggio a parlare. Fui io a prendere la parola: «Ma dimmi un po’, è stato proprio il tuo primo interesse per un testo? Non avevi mai pensato al libro, al tomo, all’incunabolo? Insomma: sei nel deserto del libro?»

«Leggerai qui che all’età di 12 anni andai in Sinagoga. Tornavo a casa durante le feste, durante la felicità di Ester, e per una lunga vacanza durante l’estate. E in questo periodo mi capitava di pensare, di commettere qualche atto impuro: ero sano, forte e l’impulso mi superava, fino al punto che non riuscivo a resistere all’hashish e al vizio di tirare benzedrina. Vedi, faceva caldo, ero spesso senza una occupazione che mi tenesse interessato: non praticavo alcuno sport, non ero impegnato al mare, ai monti; per un breve periodo studiai pianoforte, ma il mio unico impegno diventavano il rock e le droghe.

Quante volte, in quell’acqua di stagno,di un abitato pietra su pietra, sotto il sole a picco, ero con i miei sensi tesi, senza l’opportunità di incamerare in altri impegni le energie: e te le vedevi esplodere, e te ne vergognavi. Al ritorno in Sinagoga mi attendeva il rimorso, la meraviglia quasi di aver tanto provato, tanto Peccato!

E qui non ero più tentato per niente: era l’aria più fresca, l’impegno per lo studio, l’ambiente tutto pervaso da certi problemi. Miglioravo in tutto, mangiavo con maggiore appetito e mi sentivo a mio agio tra quei testi illuminanti, tra quei testi che segnavano il mio destino.

C’era, sotto sotto, un certo orgoglio di essere dentro quel segno, quando esibivo in Sinagoga la mia voce forte ed armoniosa. E provavo piacere a sentirmi dire alle spalle: «Che voce!». Tutto qui.

Ma non mi ero mai invaghito di uno dei testi che studiavo, mai mi concedevo alcun obiettivo di possedere fisicamente la carne di quegli scritti.

Che cosa facessero e pensassero i miei amici poeti di Sinagoga, non so dirti. Ho sempre creduto che avessero scelto spontaneamente quella vita: ero convinto che si veniva lì per vocazione, ed era un sacrilegio non seguire la chiamata di quei testi, la cui predilezione ci doveva da sola ripagare di tutto.»

«E qual è il momento, quali le circostanze in cui si interruppe questa continuità, e fosti poi rivelato tutto a te stesso?» 

«Ecco, mi ammalai: una condizione complessa che risentiva di denutrizione, di stanchezza per impegni vari che mi imponevo; insufficienza di fegato. Ci capirono poco allora, nella pretesa di aver tutto compreso. Di certo sta il fatto che, concordarono nel prescrivermi un periodo di lungo riposo, a casa.

Quale sarebbe stata l’evoluzione dopo anni se non mi fossi ammalato, me lo chiedevo spesso. E quale può essere lo stato d’animo, qual è il programma tutto di vita quando si è definitivamente fuori dal pensatoio? Dove può trovare un essere umano la serenità per guidare alla chiarezza gli altri, mentre è impegnato allo spasimo per resistere a certi bisogni? Mentre si vive nella propria lotta, e con le tensioni spirituali e nervose, quell’alternarsi di vittorie, di cadute e poi di vittorie, ti dà un significato. Un significato di puro significato, dove la voce e la lingua degli uomini è lo specchio dell’immanenza. Ma quando poi sei a contatto con la limpida normalità degli altri, puoi riuscire ad isolare quella tua attenzione intima, fatta di resistenza contro disponibilità naturali al cui sano godimento tu aspiri, non c’è il pericolo di una confusione, di un contraccolpo?

Certo, io so di ordini religiosi, nei quali si vive al meglio l’esperienza della non scelta: ma trapelano talvolta anche notizie poco edificanti. Guardare le cime luccicanti è necessario, osservare ciò che è davanti a noi, in fondo in fondo, è indispensabile. È vero, occorrono i ritiri spirituali, la frequente preghiera, la meditazione: ma questi impegni possono dirottare tutta la sensibilità, e soprattutto certi bisogni di affetto? Ricordo di Franz Rosenzweig che suggeriva l’alternanza di vita pratica e raccoglimento meditativo. Ma questo può giovare se si attua in ritiri inseriti in un sistema di vita che si cali nella pratica. Nel caso del rabbino tutto quanto si affronta e si filtra attraverso il tessuto meditativo e l’esperienza degli altri, un portato che gli giunge attraverso un vettore soggetto a situazioni conoscitive, che non sempre egli può valutare in modo adeguato, specie per la mancanza di un confronto diretto con il sé e il suo messaggio educativo, non certo per nietzscheiana incomunicabilità, manca di una naturale dialettica di confronto. Franz Rosenzweig parla di idee mediate dall’amore, che sente il richiamo e il contatto del corpo, di cui vuole correggere e nobilitare gli stimoli: ma quell’impeto vive con esso e se ne libera solo con una grave malattia muscolare, la sclerosi laterale amiotrofica, solo con  la SLA, prima della morte.»

Poi tacque, con un gesto ed un sorriso improvvisi.

«Sto parlando io solo, ho tenuto per me tutto l’argomento» ed era veramente diverso dalle altre volte. Sobrio, loquace talvolta, ma sempre disponibile al dialogo, al confronto; quella sera invece teneva tutto per sé: il racconto e il commento, l’ipotesi e l’obiezione, il testo è il contesto, il libro e la sovraccoperta, gli incunaboli e le metafore; nel solo ricordo la vicenda vissuta e sofferta proiettava in superficie quelle fasi non compiute che, come per un fenomeno di sovrapposizione, si raccoglievano in immagini di dolore, fatte ora di rimpianti ora di severità, il tutto sfumato in un dubbio. Girava e rigirava i due manoscritti, e talvolta ne apriva uno, lì al buio quasi volesse leggervi il tutto per tutto.

 «Vedi, tutto quanto intorno a me sembra una impalcatura vuota: e un surrogato rimangono i discorsi, certi affetti… tutto mi manca: quel fattore che funga da connettivo per legare i momenti, da coenzima. Io rido… soffro… vivo: ma tutto a fior di pelle». 

Non interrompevo quei suoi discorsi, fatti spesso di frequenti pause, di bisbiglii. Lui si fermava, lui riprendeva. Sorpreso sempre da nuovi argomenti stentavo a raccogliere una domanda e già egli sembrava dare una risposta, che ti aspirava in un nuovo groviglio, in una nuova paralisi semantica, in un nuovo dato incompreso, e in una nuova fonte di respiri. 

«Amavo quei testi, amavo quelle parole, che si spargevano in centinaia e migliaia di pagine, amavo quel suono di quei canti che si corrispondevano e quelle lettere, ma perché? … tutto poteva andare diversamente… dovevo decidermi… Ma potevo essere tranquillo della mia iniziativa?».

Si fermò un poco; poi riprese, a testa bassa. «è che tu confidi che la distanza, il tempo appiattiscano certe realtà. Ti sono troppo care, ma tu speri entrando che nel quotidiano perdano la loro specifica fisionomia, e ti consentano di vivere, di iniziare una vita possibile: perché finalmente sai come devi agire, che cosa ti aspetta, e che cosa devi alla vita. Lentamente quella lacerazione sembra ricomporsi; ti illudi! Evviva sempre la ferita: è rimasto nel fondo tutto un organismo, un programma sommerso… e basta una occasione, come quella voce: subito quegli spunti si animano tutti, riprendono i loro contorni, più vivi, più netti. Ed è tutto come prima.»

Giungemmo per l’ennesima volta davanti al piccolo accampamento dei rifugiati del terremoto dell’Irpinia, e ci fermammo per salutarci. «Li ho portati per te: mi darai un tuo parere; tra un mese o due, quando ritornerò dalla zona dell’Irpinia. Certo, lo spero.»

«Tornerai, tanto sereno, lo so.»

Non tornò più da me; ma voglio sperare che non gli sia occorso nulla di male. Forse avrà incontrato il testo giusto per la sua squisita sensibilità di scelta; forse avrà sorriso di quel passato, l’avrà guardato con un giudizio meno severo. Forse avrà perduto il segno di quella pagina sulla quale si era soffermato, o spera sempre di ritrovarla e di farmi una sorpresa.

Ma se il suo diario sarà pubblicato, probabilmente apparirà in una vetrina del tuo quartiere e forse riceverò una lettera. 

«Sembra che ci siamo, è tutto pronto o quasi e tra un’ora dovremmo partire. Oggi è venerdì, ma è il 19, quindi niente borracce da attaccare al saio!

Sulla mia scrivania ho un po’ di confusione, ma è niente in confronto con il tavolo nella salle a manger, che pare un minibazar, tanto per entrare in tema africano. In fondo, quello che ho messo in mezzo io a casa, è ben poca cosa: una borsa vecchia per maglie e camicie, un’altra per mutande, camiciola, calzini e necessario da toilette, un sacco a pelo, scarponcelli di scorta, berretto, coltello svizzero, coltello grande con fodero, binocolo, torcia elettrica, guanti da lavoro e, ovviamente, macchina fotografica. Tutto il resto, a parte la roba personale di Terzo e di sua moglie, sta nel tinello di casa del mio amico e quasi lo riempie: corde elastiche per fermare i bagagli sul tetto della Jeep, taniche per acqua e gasolio di scorta, cassetta pronto soccorso, cassetta arnesi, camere d’aria per le gomme, corde di varie misure, filo di ferro e nastro adesivo da pacchi e da elettricisti, altre torce elettriche e due macchine fotografiche, guanti, bussola, carte geografiche, un’accetta, infine una cassa di alluminio piena di cibarie, acqua e vino, ahimè, in cartoni.

La jeep è stata attrezzata con un serbatoio supplementare interno, di circa 100 litri che ne limita l’abitabilità, ma ci consente un’autonomia di circa 1000 chilometri che, per andare nel deserto è cosa saggia. Poi portapacchi, binda e pala: «Non vedi che quei libri della Sinagoga non ci stanno da nessuna parte; si tratta d ingombri impossibili, rispetto al destino libridico del deserto. Metto a posto il fascicolo e prendo quello successivo. All’improvviso sono colmo di quella tensione eccitata, gioiosa che sento spesso anche nell’ultimo passo verso il centro del Libro. Apro il fascicolo. Eccole le ho trovate.  Primo arriva e si stupisce: “Come ci è riuscito?”. Talvolta si risolve con grande facilità qualcosa che sembra un nodo complicato o una mappa irraggiungibile. Davanti a me sono sparse foto provenienti da progetti di viaggio diversi. Posso tutt’al più intuire le storie calate negli itinerari dietro di esse. Le mappe spirituali  venivano forse usati per dei riti di iniziazione? Mi affascinano soprattutto le foto delle nuove mappe. L’itinerario era forse anche per i rabini il simbolo della vita in cui sono nascoste molte verità fondamentali? Veniva utilizzato per l’esodo come all’inizio di un viaggio o per arcani ritrovamenti? La sua lungimiranza è viva ancora oggi presso di loro? Il mio cuore di ricercatore inizia a battere forte, e mi vedo già vagare per gli altipiani solitari del deserto, viaggiare in moto per Gerusalemme, chiedendo la strada migliaia di volte, fino a trovarmi davanti ad antichi libri scritti sulla sabbia. Scelgo  le mappe più interessanti e ottengo l’autorizzazione ad attaccarle l’una vicino all’altra. La spedizione lontano dalla superficie arida la rimando al futuro».

Non ci resta che caricare la vettura, non ci resta che indietreggiare, rispetto al progetto della teologia. C’è nell’aria una certa eccitazione ma si cerca di contenerla per non apparire troppo gasati o, peggio, di passare per principianti agli occhi di alcuni compagni del club dei fuoristrada a cui  Terzo  era iscritto e che sono venuti a salutarci; alcuni di essi hanno già intrapreso la traversata di quel mare di sabbia, altri invece sono semplicemente venuti a rompere i coglioni con argomentazioni che evidenziano solo l’invidia che gli rode: “State attenti agli scorpioni che di notte si infilano nelle tende, nelle scarpe – se sono quelle di Terzo, dicevo io, sono cavoli loro! – non date la mano mancina se incontrate il Patriarca, perché si offenderebbe a morte, diffidate di questo di quello, non fate questo non fate quest’altro, attenti qui, attenti là, eccetera eccetera e vaffanculo all’Apologo, a.teologico!”.

di (Ardor – &) Gabriele Perretta (I e II