Per millenni l’arte fu mimesi e comunque espressione del sentire assoluto dell’artista. La rivoluzione industriale ha privilegiato il sociale assumendo sempre più un ruolo specchio del mondo, spesso non mediato, e ha perso quindi la funzione catartica, rigeneratrice dell’animo umano.
È un fatto che con l’avvento della pubblicità, la distanza tra il mondo dell’arte e quello della comunicazione si sia artatamente accorciata tanto che in certi casi è difficile distinguere o ci chiediamo se sia il caso di fare dei distinguo.
Andy Wharol fa del barattolo della Campbell, prodotto estremamente popolare, un’icona mediatica e quindi innesca l’equivoco dovuto ai parametri della riconoscibilità non del segno ma del soggetto. Stesso discorso per il ritratto di Liz Taylor, volto assai noto, un’ottima scorciatoia per la notorietà .
Cattelan per venire più vicino a noi, che non è un caso che provenga dal mondo della pubblicità a cui peraltro si possono ascrivere grandi valori, fa centro con un’immagine choc, la raffigurazione a grandezza naturale del Papa , figura carismatica e “familiare” urbi et orbi, colpito da un meteorite. Il clamore suscitato rimbalza ovviamente sull’artefice.
E arriviamo ai fenomeni Bansky, il noto incognito, e Obey, nome d’arte di Shepard Fairey, che usano direttamente gli strumenti della pubblicità per fare arte. Sfondano indubbiamente il muro della popolarità, i loro media sono stranoti, danno sicurezza ai giovani che scippati della cultura di base, comprendono facilmente i semplici simboli da questi usati, e che sia arte o meno alla fine non è rilevante. Ne prendiamo atto anche se oggi però grazie a internet, stigmatizzato ed idolatrato, come ai suoi esordi la scatola magica dalla luce azzurrina, c’è un riaffermarsi dell’Homo Novus, proprio grazie alla rapidità della veicolazione dell’informazione. Come dice Elena Tempestini, nota storica e scrittrice fiorentina, l’uomo è assimilabile alla pianta e come questa cresce se è curata ed innaffiata fin dalla semina. E quindi emerge lampante il danno dovuto alla scomparsa della scuola e dei suoi valori, tra cui la disciplina che come dice Kant è più importante della cultura. .
Un pessimo segnale per la cultura ci arriva anche dall’Università di Yale che ha tolto l’arte rinascimentale dalle materie di studio, eliminando di fatto i futuri sostenitori (v. Friends of Florence) di quei capolavori che parlano a tutto il mondo.
Obey come Bansky e tanti altri sono i figli di questo equivoco che ha confuso la riconoscibilità del soggetto con la riconoscibilità del segno.
Dotato di indubbi doni, divenne famoso grazie alla sua immagine non ufficiale di Obama, epigono della Marilyn del padre della pop art. La locandina venne prodotta e riprodotta in concomitanza della campagna presidenziale di quest’ultimo del 2008. Il suo messaggio è un mix tra denuncia sociale, famosa la sua condivisione ai temi di Angela Davis, simbolo del femminismo e dell’uguaglianza razziale, usando un media come le locandine, e le sue riflessioni sul futuro del nostro pianeta e sulla sopravvivenza dell’umanità.
Queste realtà studiate a fondo e ben presentate dai curatori delle mostre italiane di Banksy e Obey, Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, ne permettono una lettura diversa e approfondita. Bene ha fatto Palazzo Ducale a presentare Obey in contemporanea allo zoom sul capolavoro di Monet affiancato da un notevole testimone dell’arte del Novecento come Boldini. Il pubblico avrà modo di confrontarsi “ex aequo”. Ritornando a Ernst H. Gombrich l’arte si è nata per comunicare, ma bisogna però fare i conti con la notorietà che genera un altro livello di comunicazione.
Oggi è la caducità che si assimila al destino dell’essere umano invece che l’immortalità il tema che domina la ricerca artistica. Proprio per l’affermarsi di questa linea di pensiero siamo ormai di fronte all’arte dei 15 minuti come la definisce Luca Beatrice.

5 minuti con Monet. A tu per tu con le Ninfee
