Forse è nel suono dello sgocciolio dell’acqua che la mostra Come Ghiaccio, ospitata al Castel Belasi Centro d’Arte Contemporanea per il Pensiero Ecologico, istituzione pubblica del Comune di Campodenno, trova la sua risonanza più profonda: un suono né esplosivo né monumentale, ma che silenziosamente scava nella coscienza. Curata dal direttore artistico del centro, Stefano Cagol, all’interno delle stanze gelide di una fortezza alpina medievale, Come Ghiacciorappresenta l’atto conclusivo di una trilogia concettuale dedicata all’elemento acqua, dopo Come Pioggia (2023) e Come Isole (2024). Ma qui il sentimento non è quello della fluidità, bensì della frammentazione, della sparizione, di un solenne ripiegamento nella fragilità. Il castello, decorato da affreschi rinascimentali scoloriti che raffigurano metamorfosi ovidiane, non è soltanto uno spazio espositivo, ma diventa palinsesto del crollo — storico, ecologico, esistenziale. La narrazione per immagini del castello stesso riecheggia questo senso di trasformazione. All’interno Perseo uccide un mostro, mentre all’esterno i ghiacciai si sgretolano e i conflitti si moltiplicano.
Non siamo qui per vedere arte, ma per confrontarci con essa. Cagol ripropone in questa occasione Last Riot (2007) del collettivo AES+F, rielaborandolo in 4K: non come reperto d’archivio, ma come specchio profetico. In questo video distopico, la neve non è innocente; è un territorio strategico. L’orchestrazione wagneriana e l’estetica tecno-barocca in CGI delineano un futuro dove bellezza e brutalità si fondono, dove la purezza alpina è devastata da missili, e dove avatar giovanili combattono una guerra senza fine. L’ironia? La neve qui non si scioglie, viene annientata. L’eterno caos messo in scena da AES+F trasforma il ghiaccio da vittima a combattente, assimilando le lezioni della storia militare russa — una storia che non si lascia andare al lutto sentimentale, ma che impone il confronto diretto.
Questa mostra si presenta come un ghiacciaio decostruito, frammentato attraverso media, temporalità e geografie diverse. Bianco (2024) di Gregor Hildebrandt, una slanciata colonna di vinili compressi e modellati, poggiata su un piedistallo di marmo, è al contempo capsula del tempo e lapide. La materialità della scultura richiama la stratificazione delle carote di ghiaccio, mentre l’impiego di reliquie musicali la trasforma in un lamento della memoria umana. Se la Colonna infinita di Brâncuși aspirava al divino, l’opera di Hildebrandt risponde dall’estremo opposto: finita, spettrale, quasi disperata.
In un’alcova silenziosa, il sound artist australiano Philip Samartzis coinvolge l’ascoltatore in un viaggio nell’inquieto sottosuolo artico. La sua serie Floe raccoglie registrazioni provenienti dall’Antartide Orientale, frutto di un decennio di esplorazioni sonore. In una traccia si percepisce il gemito di un iceberg, in un’altra il crepitio e lo schiocco del ghiaccio che si frantuma e si muove: è come ascoltare il respiro cristallino della natura. Samartzis dà voce al linguaggio segreto del ghiaccio, in un racconto fatto di slittamenti e fratture, un canto sommesso che evoca memoria.
Altrettanto essenziale, ma sottilmente inquietante, è il video Wise Ice (2022) di Khaled Ramadan. L’artista ci mostra macro-inquadrature di ghiaccio in movimento: bolle d’aria che si rincorrono, acqua torbida che scorre sotto una superficie congelata, forme che tremano in modo imprevedibile. Privati della loro scala naturale, questi frammenti di ghiaccio sembrano danzare come piccoli organismi viventi. Come si legge nella biografia dell’artista, «Siamo soliti pensare al ghiaccio come una materia dura, sterile, inospitale… Ramadan con profonda semplicità mostra piccole porzioni di ghiaccio osservate molto da vicino. Riesce così a intercettare e farci vedere improvvisi e continui movimenti sotto la fredda epidermide dell’acqua. La visione appare vitale e gioiosa. Facendo ciò, sovverte le nostre convinzioni antropocentriche». In altre parole, il “ghiaccio sapiente” tradisce la vita. L’opera ci ricorda che anche il più piccolo cristallo è animato, e che il ghiaccio non è inerte, ma una fonte di origine. Il tono fiducioso di Ramadan si contrappone alla paura dominante: il ghiaccio è fragile, sì, ma anche fertile.
Tra le opere più viscerali c’è Le due morti (2025) di Indra Moroder Valecha. La giovane artista altoatesina, residente a Londra, stende un etereo velo di seta su cui poi scaglia cubetti di ghiaccio tinti di un rosso cremisi. Il ghiaccio che si scioglie lascia scorrere sul velo bianco delle tracce sanguigne. Nel catalogo si legge: «Il ghiaccio è colpito a morte, sanguina nell’opera … Indra Moroder Valecha… questo bianco è violato da macchie di un acceso rosso sangue. L’artista ha scelto di evocare la violenza da noi inflitta alla natura colpendo la tela con cubetti di ghiaccio colorato, che, fondendosi, amplificano il senso di brutalità». Originaria delle Dolomiti, Valecha richiama anche la memoria locale: il ghiacciaio sanguinante evoca la tragedia della Marmolada del 2022. Il titolo Le due morti è emblematico, indicando una morte per la natura e una per noi stessi. Come ci ricorda l’artista, «con la natura moriamo anche noi e che siamo noi a dover recuperare quel senso di rispetto sacrale verso l’ambiente». Così la sua opera si fa insieme lamento e profezia.
Di fronte all’opera di Valecha pende una tela austera dell’artista newyorkese Emilio Perez, Secret Worlds (2025). È una vista mistica di montagne in toni smorzati di oliva e rosa, completamente priva di figure umane. Perez racconta di voler rappresentare «un ritorno a una fase primordiale, nella quale l’essere umano non è presente». Le nuvole si tingono del delicato rosa dell’alba, mentre l’acqua limpida scorre in fondo alla valle — un ciclo eterno di vita e acqua, libero dal nostro “impatto e accelerazione”. Nel mondo di Perez, le Alpi riposano in un Eden precedente al nostro arrivo. Il vuoto qui non è assenza, ma un richiamo potente. Sulla stessa frequenza silenziosa si muove la tela dell’italiano Pietro Capogrosso, la cui ampia e dissolvente pennellata quasi annulla la bianca silhouette della montagna. Come a dire, seguendo Perez, che bisogna imparare ad ascoltare il silenzio della montagna, perché il suo “vuoto” è sacro.
A futura memoria (2018) di Laura Pugno, realizzata con uno stampo diretto da neve in scioglimento, appare come un reperto archeologico di una civiltà già in lutto. L’opera non si limita a documentare il collasso climatico: lo incarna. Nello stampo dell’assenza che Pugno ci offre, il vuoto si fa materia. Qui l’Antropocene non è solo teorizzato, ma fossilizzato.
L’artista inuit groenlandese Ivínguak’ Stork Høegh, in eco ai ghiacci che si sciolgono, mette in scena visioni artiche surreali nei suoi collage digitali. La sua serie (2020–24) è letteralmente composta da “paradossi artici”, tanto culturali quanto climatici. In una scena, delle zebre trainano una slitta sulla neve; in un’altra, una madre e un bambino in pelliccia si rilassano su una spiaggia bordata di palme, con secchielli di plastica nella sabbia, come se la Groenlandia si fosse sciolta nei tropici. Non meno assurdi e provocatori sono gli iceberg-grattacielo e il rubinetto ai piedi di un iceberg. Come fa notare il curatore, queste opere «risultano quanto mai attuali, in un momento in cui la Groenlandia è territorio conteso dalle brame dei potenti, mentre i cambiamenti climatici riducono la sua calotta glaciale». Inserendo figure inuit tradizionali in contesti assurdi, caldi o meccanizzati, Høegh fonde in un’unica immagine la denuncia del colonialismo e della crisi climatica. Il suo umorismo è tagliente: il futuro della Groenlandia è in pericolo, ma nei suoi collage l’avidità del mondo ha già raggiunto quei luoghi — in modo grottesco e beffardo.
Il gesto più rituale dell’intera esposizione prende corpo in Apa (Madre) di Almagul Menlibayeva, raro video del 2003 in cui donne sciamane, nude e totalmente immerse nella propria sacralità, invocano la Madre primordiale tra le montagne del Tien Shan. Il paesaggio, abbagliante e innevato, avvolge i loro corpi e le loro voci: non si tratta di grida, ma di un’evocazione antica, che risuona come un richiamo dimenticato. Menlibayeva evita le eco-ansie del Nord globale, scegliendo invece una risonanza più profonda, ancestrale. La sua invocazione è insieme preghiera e accusa. Il materno si fa acquatico, e l’acquatico diventa politico.
State Change of Matter (2025) di Caroline McManus osa mostrare l’altro volto del ghiaccio: quello sintetico e industriale, fatto di polistirene e della catena del freddo che alimenta la logistica globale del consumo. La sua installazione, composta da polistirolo di recupero e sacchi della spazzatura, è inquietante nella sua clinica bianchezza. Evoca un parallelismo disturbante tra la fragilità dei ghiacciai e la tossicità persistente degli imballaggi. Più congeliamo, suggerisce l’artista, più contribuiamo a riscaldare il pianeta.
Ancora, Waterfall (2015) di Yitian Yan, immerso in una luce rossa opprimente, evoca una tossicità spettrale. L’artista impiega sostanze chimiche fotografiche sia come materia sia come metafora, realizzando un video che disorienta anziché chiarire. Le gocce cadono in un abisso cremisi, trasformando il riscaldamento globale in un’esperienza da camera oscura, più che in un’apocalisse lenta. Qui non c’è consolazione, ma una corrosione graduale.
Eppure Come Ghiaccio non è un lamento funebre. È uno studio profondamente estetizzato, a tratti persino romantico, sulla scomparsa. In Invisible (2022) di Peter Aerschmann, vediamo sagome spettrali di iceberg — figure evanescenti che attraversano una società in crisi. Mentre i ghiacciai si dissolvono, anche le identità si sfaldano. La danse macabre di Aerschmann non è solo ecologica, è anche sociologica.
La mostra si conclude con Vanishing Point (2019) di Eleonora Roaro: una camminata solitaria nel Great Salt Lake dello Utah, oltre la Spiral Jetty di Robert Smithson, in direzione della sparizione. Roaro, un punto che si dissolve all’orizzonte, ci invita a riflettere non solo su dove stiamo andando, ma su ciò che siamo disposti a lasciare indietro. Un’opera priva di ogni spettacolarità, e forse proprio per questo il grido più silenzioso – e più lacerante – dell’intera esposizione.
In tutto il percorso espositivo di Come Ghiaccio, queste opere dialogano – talvolta in disaccordo, talvolta in armonia – su come la vita evapori come una nube nell’aria che si riscalda. L’apocalisse wagneriana, la colonna di Brâncuși, il rituale tribale, i rifiuti della modernità: tutto si intreccia con gli affreschi e le pietre del castello. Anche le Dolomiti, fuori dalle mura, sussurrano lo stesso messaggio. In definitiva, la mostra si configura come un requiem e un monito: i fantasmi dei ghiacciai ci richiamano alla coscienza. Non offre soluzioni — né dovrebbe. Piuttosto, esegue una sorta di autopsia forense delle nostre credenze: nel progresso, nella permanenza, nella purezza. Castel Belasi, con le sue pareti affrescate e il silenzio alpino, diventa un mausoleo dei futuri perduti. Ciò che resta non è la speranza, ma un doveroso confronto.
Ed è proprio in questo che Come Ghiaccio riesce: non offrendo catarsi, ma rifiutandola. La voce curatoriale di Stefano Cagol intreccia scienza climatica, spiritualità e geopolitica in un terreno di resistenza affettiva. Le opere non mirano a sciogliere i nostri cuori — mirano a indurirli. Contro l’ignoranza. Contro l’amnesia. Contro il disgelo imminente.
AES+F (RU/DE/US), Almagul Menlibayeva (KAZ), Caroline McManus (US), Eleonora Roaro (IT), Emilio Perez (US), Gregor Hildebrandt (DE), Khaled Ramadan (LB/DK), Indra Moroder Valecha (IT/UK), Ivínguak Stork Hoegh (GL), Laura Pugno (IT), Peter Aerschmann (CH), Philip Samartzis (AU), Pietro Capogrosso (IT), Yitian Yan (CN)
Maria Giovanna Abbate, Giulia Broz, Elisa Cappellari, Florinda Ciucio, Michela De Nichilo, Stefano Ferrari, Arianna Marcolin, Camilla Prey, Roxane Erika Roehrig