Una sorta di riesame, all’insegna dell’evidenza, del lavoro sperimentale, ma non certo da laboratorio, prodotto insieme dai due artisti in questione in un periodo che va dal 1982, anno in cui il gallerista Bruno Bischofberger promosse l’accordo tra loro al 1985 anno in cui, innescata da una serie di critiche negative sulla stampa, una progressiva forma di sconforto assalì il più giovane dei due, che resterà comunque in buoni rapporti con Warhol fino al 1987 anno del tragico decesso in ospedale di quest’ultimo.
Una esposizione quella di Parigi che dopo aver compiuto l’ormai classica risalita delle undici sale in successione messeci a disposizione dall’edificio di Gehry non può non lasciarci più che soddisfatti.
Soddisfatti innanzitutto per la possibilità finalmente concessaci di vedere il più alto numero di opere a quattro mani dei due artisti finora raccolto in un unico evento, (70 su un totale stimato di 160 cui se ne aggiungono altre 15 cui partecipa però anche Francesco Clemente) il che vuol dire anche poter constatare di persona come la collaborazione tra le diverse personalità in gioco non solo si configurò sin da subito come un vero e proprio dialogo ricco di stimoli e senza false acquiescenze, ma anche come una occasione per trasformare l’iniziale affollamento di elementi in contrasto costruttivo tra loro in una inedita forma di controllo globale del risultato. Con metafora militaresco-cinematografica si potrebbe quasi dire un nuovo veicolo d’assalto, con due comandanti più grintosi che mai ed una potenza di fuoco non banalmente raddoppiata, ma del tutto ripensata.
In secondo luogo alla mostra in questione dobbiamo anche essere grati per la messa a disposizione di una gran quantità di dati relativi all’epoca in oggetto osservati in loco ed in movimento. Un patrimonio di testimonianze e valutazioni ancora vibranti, che ci consentono di inquadrare in maniera molto diversa le poetiche personali dei due personaggi trascelti nel magma della New York del tempo, e che ci aiuta non poco a liberarci dal giogo insidioso della cartografia storico ideologica che continua, con sempre maggiore determinatezza, ad offrircisi quale piattaforma interpretativa a disposizione delle nuove generazioni che i tempi in questione non li hanno vissuti e tendono ad immaginarli sulla falsa riga dei propri.
Il tutto in un contesto dove, “inquadrare in maniera diversa“, vuol dire soprattutto ripescare la Pop Art di cui Warhol fu uno degli araldi più tenaci, dalla morta gora in cui hanno tentato di relegarla tutti coloro che vi hanno visto poco più che una messa in guardia tardiva e poco efficace contro la comunicazione mass-mediale oramai del tutto asservita all’economia capitalista. Ripescarla e riconoscergli la sua efficacia anche nella comunicazione tra quei privati cittadini di cui comunque sono costituite le così dette masse planetarie.
In alte parole una revisione della vulgata storica affermatasi negli ultimi decenni cui possiamo aggiungere, senza difficoltà, anche una ulteriore forma di credito verso l’ irruenza di Basquiat, ora valutabile anche come un tipo di azione sulla scena metropolitana, non più limitato semplicemente ad eventi in loco. Un tipo di azione che paragonando la metropoli stessa ad immane schermo in continua attività, può iniziare a proiettavi sopra quei procedimenti di copia incollae incrocio dati che oggi l’arte dell’era della Globalizzazione, grazie alla rete ed ai cosiddetti social sta già ampiamente sperimentando nel suo affannoso sforzo di non rimanere ingabbiata in un universo di valori privo di stabilità e di riferimenti efficaci al dato soggettivo, indubbiamente il più difficile da valutare rispetto alle incombenti, ma anche avvolgenti prospettive della produzione artistica prossima ventura.