Gerhard Merz
Aurelio Bulzatti, Notturno urbano, 2007. Olio su tela, cm 130x240

Aurelio Bulzatti – Finalmente una bella notizia

Al Mart di Rovereto una grande mostra ricapitola la carriera di Aurelio Bulzatti

È veramente una gran bella notizia quella dell’importante mostra che al Mart di Rovereto (sino al 5 novembre), da un’ottima idea di Vittorio Sgarbi e per la cura di Gabriele Lorenzoni, ricapitola l’intera parabola della carriera di un pittore di grande talento: Aurelio Bulzatti. Un’occasione unica che, con ritardo (meglio tardi che mai), fa giustizia di un silenzio colpevole che, per la verità, da decenni non riguarda solo Bulzatti, ma tutta l’articolata storia della pittura figurativa italiana dal dopoguerra in poi, ad eccezione della Transavanguardia di Bonito Oliva e di alcune declinazioni dell’esperienza dell’Anacronismo di Calvesi e della Scuola di San Lorenzo. Si tratta di un disinteresse grave che ha penalizzato autori importanti come Ennio Calabria, Lorenzo Vespignani, Gianfranco Ferroni, Franco Mulas e tanti altri artisti di quella cosiddetta Nuova Figurazione di cui scrive il compianto Domenico Guzzi in un libro dimenticato, dal titolo non casuale: “L’anello mancante”. 

Aurelio Bulzatti non fa parte di quella storia grande e vilipesa ma di una esperienza più minuta. Direi non meno preziosa, però, a partire dal nome di chi la promosse. Parlo dell’ultima “Tartaruga” di Plinio de Martis che rimase anch’essa saldamente ancorata ad un’opzione di pittura colta e di figura che si caratterizzava per l’estrema, quasi religiosa, ricercatezza, per il carattere intimista e per l’attenzione maniacale alle radici della buona pittura, considerata alla stregua di una realtà archetipica. Un bene prezioso da far crescere ed evolvere, conoscendone a fondo e rispettandone le radici. 

Forse Plinio De Martis aveva intuito quella che sarebbe stata la deriva di senso che, in accordo con un complesso granitico di interessi costituiti, avrebbe decretato non il ridimensionamento ma l’agonia della pittura, celebrando le sorti magnifiche e progressive (si fa per dire) di un epigonismo concettuale molto caro (un amore non disinteressato) al sistema dell’arte. E’ ormai nemmeno più troppo celata l’intenzione di tale sistema di sostituirsi agli autori, per decidere in autonomia che cosa è arte e che cosa non lo è, governando quei processi di “artistizzazione” che tanto efficacemente ha descritto Mario Perniola nel suo L’Arte espansa. 

Ecco, non solo Aurelio Bulzatti non ha nulla a che vedere con questa deriva. Ma, casomai, fieramente e coraggiosamente ha dato e dà un contributo significativo a un fronte di resistenza attiva che ancora (ma ancora per quanto?) ha evitato (rinviato?) la capitolazione definitiva, catacombale. E’ proprio per questi motivi che la sua mostra è un’ottima notizia. Essa fonda le sue ragioni non solo sui pochi argomenti che ho sommariamente ricapitolato ma, soprattutto, sulla qualità costante di un percorso ormai lungo e meditato che ha fatto della ricerca di Bulzatti uno degli esempi più pregevoli di quel ritorno alla pittura inauguratosi fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. 

Una stagione entro la quale tanto chiassosamente si è espressa la Transavanguardia, grazie alle indubbie qualità camaleontiche del suo “inventore”. Ecco, diciamo che il lavoro di Aurelio Bulzatti di chiasso non ne ha mai fatto. Lui e i suoi compagni di strada della Tartaruga – Ligas, Piruca, Frongia, Di Stasio, Gandolfi – per fare un quadro ci mettevano mesi e i loro tempi non erano quelli dell’edonismo reaganiano, del sensazionalismo, della caciara finanziaria e mercatista. Piuttosto erano quelli del silenzio e della meditazione, persino un po’ orientale nel caso di Aurelio che è riservato, misurato, parla a bassa voce e pratica lo yoga. 

Come scrissi in un libro, lo conobbi ormai tanto tempo fa per telefono, dopo aver visto alcune sue opere che mi avevano sedotto, confesso anche con la complicità  del mio amore esagerato per la scuola di via Cavour e per quella dei Tonalisti dell’Ecole de Rome, di cui mi sembrava di cogliere degli echi nei suoi quadri. Non resistetti, cercai il suo numero, lo trovai e da allora divenimmo amici. Fino ad oggi. Sino a quando non ho usato una sua piccola, squisita tela per la copertina del mio penultimo libro, polemicamente intitolato Se tutto è arte….(Mimesis). Cinquanta sono le opere che il Mart ci propone oggi: un campione generoso che comprende un numero significativo di dipinti realizzati per l’occasione. Un’esperienza – osservarli – che restituisce il senso di una calma fondata sulla solidità di alcune convinzioni, non molte ma dirimenti: il senso della fragilità, il rispetto per l’dea di classico, l’attenzione all’oggi.

 La prima spiega quella mestizia riflessiva e anti-trionfalistica dipinta sul volto dei personaggi che popolano i suoi quadri. Uomini e donne seminudi o vestiti, variamente atteggiati, ma sempre e comunque portatori del senso dei propri limiti, della consapevolezza della propria finitudine, contingenza, vulnerabilità. La stessa che a me sembra possa essere all’origine dell’arte che, come fa la filosofia, risponde e reagisce allo sgomento primordiale, ma più che mai resistente, connesso con l’esperienza dell’esistere. 

La seconda che tratteggia la consapevolezza di come la pittura abbia declinato nei secoli – da Antonello da Messina a Ziveri – questa risposta al senso di fragilità, magari non del tutto consapevole, che ci angoscia. Uno stato d’animo che sta alla base dello studio dei classici, persino delle architetture classiche, della statuaria, dei piccoli oggetti che popolano i tavoli dipinti da Bulzatti (a volte come faceva Scipione), che sta alla base del fare quotidianamente (cocciutamente) il “mestiere del pittore”, dell’avere del proprio ruolo nel mondo un’”idea classica”.

 La terza riguarda un sentimento di compassione per gli ultimi e i penultimi del mondo di oggi, tanto presuntuoso e arrogante quanto miseramente incapace di distribuire equamente possibilità di vita degna. E qui alle bottiglie e ai vasi di Morandi Bulzatti sostituisce i cassonetti entro i quali le zingarelle provano a pescare qualcosa o le fontanelle alle quali si lavano i piedi perché non hanno una casa dove farlo. Impietoso segno dei tempi.