Atlans Feminae: Eleonora Rossi

Da questo mese inizia il tour italiano di Atlans Feminae part. 8, ultimo nato della ormai pluridecennale produzione videoinstallativa di Eleonora Rossi. Il primo incontro, che ho il piacere di presentare, si tiene il 16 giugno presso il Centro Servizi Culturali di Ragusa in occasione della rassegna Extravolume. La parola ad Eleonora.

Provieni dal disegno, dalla pittura. Come sei approdata alle videoinstallazioni?

Sono cresciuta con una famiglia che mi ha introdotto alla bellezzadi questo Paese facendomi visitare in lungo e in largo tutta la penisola a caccia di pittura e di beni culturali in generale. Ho perciò respirato molto del repertorio iconografico italiano per gran parte della mia infanzia e successivamente l’ho studiato e praticato dal Liceo all’Accademia. Questo mi ha portato a esprimermi prevalentemente attraverso le immagini, il disegno e la pittura nello specifico. Parallelamente sono sempre stata onnivora in materia di Cinema, di letteratura e di musica. Al Liceopoi, per mia grande fortuna, sono stata allieva di Paolo Rosa di Studio Azzurro, che per primo mi ha introdotto a un mondo a me quasi del tutto sconosciuto, quello della video arte. Ho capito fin da subito che questo mezzo poteva contenere in sé tutti i linguaggidei quali mi ero nutrita fino a quel momento. Mi è sembrata la perfetta sintesi.

Posto che, come diceva Michelangelo, si disegna col cervello, e questo vale pure per la videoarte, in che cosa quest’ultima differisce dalle pratiche di una tradizione che tu stessa non rinneghi?

Probabilmente la differenza più grande sta nel fatto che disegno e pittura presuppongono osservazione costante ma soprattutto una pratica quotidiana di dedizione totale, mentre con il video è più una questione di osservazione costante che solo a un certo punto si traduce in opera. A mio avviso, più che di differenze, parlerei di elementi in più che arricchiscono la creazione e la fruizione di un’opera di video arte, ma anche di punti in comune con i media più antichi. Nel caso del video, l’elemento primo sopra tutti che ancora non ho riscontrato in altri mezzi sperimentati fino ad ora, è sicuramente la possibilità di manipolare il tempo e in secondo luogo la costruzione di uno spazio di esperienza. Mi è sempre andata stretta la definizione di tempo cronologico così come di spazio tridimensionale. La fisica ci ha mostrato ben altro ad oggi e i giochi sono aperti, ma penso anche al senso del tempo in alcune discipline orientali come lo Zen o lo Yoga. Ecco, i miei sono esperimenti che, oltre ad indagare una tematica, tengono sempre a mente queste due questioni (tempo e spazio). Perciò, per tornare alla domanda, io disegno sempre con il cervello, come tutti, salvo che nel caso del disegno grafico, il corpo è il conduttore numero uno nella fase trasformativa dall’idea alla forma (cervello, occhio, mano, foglio) mentre nel caso del video cambia il mezzo che permette a chi crea di muoversi nello spazio tempo in maniera più libera a mio avviso e a chi fruisce, di esperire un’opera in maniera più immersiva. Tra le assonanze mi viene da dire che a monte c’è una progettazione che passa comunque dal disegno. Il contatto fisico con l’opera avviene attraverso l’esperienza diretta con i soggetti dei video, in una relazione che si crea; la forma si ottiene con uno strumento che è luce e suono, è fluido ma è anche registrato su un supporto rigido e viene proiettato a sua volta grazie a qualcosa che è fisico (es. proiettore), come fosse la matitao il pennello. Non che un mezzo sia migliore o peggiore dell’altro.

Nel tuo ultimo ciclo, Atlans feminae indaghi il tema del ritratto contemporaneo attraverso figure femminili come Isabella d’Este, Sofonisba Anguissola, Leonora Carrington e Fernanda Wittgens: tutte donne aventi a che fare con il mondo dell’arte. Non sarà che i tuoi ritratti sono, in un certo senso, un pretesto per indagare su te stessa?

Sicuramente. Quasi tutta se non tutta la mia opera è un pretesto per capire chi sono, dove vado e da dove vengo. Io credo nell’esperienza individuale come esperienza universale. Microcosmo e macrocosmo. Sono una tra miliardi che fa riflessioni su quello che accade a un essere vivente che è un granellino di sabbia che rotola nell’universo su un granellino di sabbia. Prima di me ci sono stati altri illustri o meno e sono curiosa del loro punto di vista così li analizzo. Con alcuni è più facile entrare in sintonia perché sento risuonare qualcosa in cui mi riconosco e queste corrispondenze mi fanno sentire meno sola e vagamente mi fanno pensare che in tutto questo ci sia un senso. Devo dire che però non mi accade solo con le donne, ma anche con uomini, esperienze, elementi naturali ecc.

Cosa ti piace di più del tuo lavoro? Che cosa cambieresti?

Quello che mi piace di più è l’idea, quella cosa astratta e intangibile che attraverso l’immaginazione si fa forma, il processo e poi la relazione che si crea con i soggetti delle opere e con il pubblico. Quello che mi piace di meno e che quindi cambierei sono i limiti tecnologici che ho. Vorrei quindi per il futuro che immaginazione e tecnologia fossero sempre più in sintonia.

Quanto influiscono i luoghi che frequenti sulla tua produzione?

Moltissimo. Nel bene e nel male. In alcuni casi li cerco e mi ci immergo, in altri casi ho bisogno di separarmi da alcuni luoghi che presuppongono anche frequentazioni che non amo molto, che sono sterili. Il tempo è poco e prezioso, bisogna avere il coraggio di compiere delle scelte e dire no. Non credo più che ogni esperienza sia valida per una crescita interiore e quindi produttiva.

Non usi, correggimi se sbaglio, attori professionisti. Come scegli i tuoi interpreti?

Esatto. Anzi almeno fino ad oggi ho anche rifiutato di lavorare con persone con un certo seguito. Mi interessano le persone reali che vogliano condividere un progetto, che si sentano addosso quello che stanno facendo non perché sono brave a recitare ma perché per qualche motivo hanno sentito una connessione con l’opera o con me. Ho avuto la fortuna di incontrarli/le perché sono davvero curiosa delle storie delle persone e quindi non è poi così difficile che si inneschino alcune affinità elettive. Forse i primi veri rapporti di scambio reale tra me e i soggetti dei miei lavori ci sono stati quando ho lavorato al Ciclo del Perdono. Mi viene in mente ad esempio, Numb_Confession n. 2 dove Sacha Waldman,un fotografo sudafricano, mi ha regalato una confessione intimissima sulla sua difficoltà a perdonarsi per una problematica di dipendenza. La “confessione” è avvenuta in una macchina di notte, un luogo privato e sicuro, salvo poi mettersi completamentein gioco in pubblico esternando una sorta di espiazione nell’atto di trascinare a spalla un grosso masso legato con una corda per le strade della sua città Cape Town. Gli sarò sempre grata. Così come a tutti gli altri con i quali ho lavorato.

Le tue videoinstallazioni sono sovente l’esaltazione di un dettaglio, che diventa la chiave di accesso a un mondo altro. Cosa ti affascina delle piccole cose?

In un gesto si può trovare il mondo intero. Dici bene, una chiave d’accesso, un invito ad entrare, alzo la palla e il pubblico schiaccia se sono stata brava perché non credo di dover dare delle spiegazioni con il mio lavoro ma quello che spero è di innescare domande, scoperte, inquietudini che a loro volta potrebbero aprire alla conoscenza. Sta poi a chi si ritrova coinvolto nella visione il completare la forma su di sé. 

Nella tua ultima opera usi inquadrature doppie affiancate in split screen. Un riferimento alla doppiezza del reale?

Si, l’ho fatto spesso anche in opere precedenti o il multiplo (ma per rappresentare questo non mi è ancora arrivata la giusta visione, mi riservo per il futuro). Poi forse perché ho due figli gemelli (vedi Jim Jarmusch) poi anche perché mi permette di sperimentare e manipolare il tempo come dicevo prima (il prima, il dopo, il durante, il simultaneo, l’infinito).

Chi sono, a parte Greenway, i tuoi riferimenti?

Uh tantissimi! Ne cito solo qualcuno. In ambito video arte Bill Viola, Studio Azzurro, Tacita Dean, Kimsooja, Francis Alys, Douglas Gordon, Steve McQueen (del quale mi ha stregato anche l’ultima mostra Sunshine State all’Hangar Bicocca con quel gigantesco sole che brucia…), tra le più recenti scoperte, ma non ho ancora avuto modo di metabolizzare bene il suo lavoro, anche Noemie Goudal. Fotografi come Crewdson, Nan Goldin… Nel cinema Buster Keaton, Lynch, Jarmusch, Ferrara, Herzog, Gondry… La musica direi prevalentemente rock ’70; così al volo mi viene Patti Smith, della quale apprezzo anche il lavoro di scrittura e fotografia.

Nell’epoca dei reel e dei tic toc, la videoarte, con la sua lentezza, possiede gli strumenti per interessare un grande pubblico o è destinata a rimanere un fenomeno di nicchia?

Mah non è una cosa che sento come un problema. Non mi interessa granché. Non penso a un grande pubblico… quando immagino qualcuno che guarda il mio lavoro me lo immagino sempre come qualcuno con cui vorrei fare una chiacchierata,magari davanti a un bicchiere di vino, che sia un intenditore di arte o qualcuno che non ne sa nulla. Io stessa non ne so moltissimo. Non per snobismo anzi proprio perché non vedo necessariamente un valore nei grandi numeri, mi piace il rapporto uno a uno, guardare bene le cose al rallentatore. L’idea che non ci si prenda del tempo per fare un’esperienza che sia visiva sia di altra natura mi dispiace un po’. Scrollare immagini è inizialmente e in apparenza un antistress poi diventa la natura dello stress. 

Entro il 2024 uscirà il tuo catalogo completo. Come è cambiato negli anni il tuo approccio alla videoarte?

Ci stavo giusto pensando quando ho deciso di raccogliere tutto il lavoro fatto in questi 16 anni. Non so ancora dare una risposta, non so se ci sono stati dei cambiamenti. Per molto tempo e per varie vicissitudini biografiche non ho mai avuto una visione complessiva di quanto fatto fino ad ora, la giusta percezione. L’ho sempre sentito parte del mio percorso di vita senza guardare troppo indietro, ma con il desiderio di sperimentare il progetto successivo. Raccogliere il tutto intanto mi fa sentire che c’è della continuità sulle tematiche e sul linguaggio formale. Una cosa positiva ad esempio è che mi riconosco ancora in tutto. 

Mi avvio alla conclusione; come va, in questo momento, il mercato della videoarte? Pensi che i collezionisti e in generale il sistema dell’arte, alimentino il lavoro dei videoartisti nella maniera più adeguata?

Questa è la domanda più difficile tra tutte quelle che mi hai fatto. Posso dirti che per fortuna esistono gli still frame! Guarda,ultimamente dove mi giro c’è qualche mostra di video arte ed è sicuramente un bene; quindi evidentemente c’è meno riluttanza di qualche tempo fa nell’esporre opere di questo genere. 

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Sto organizzando alcuni incontri estivi in luoghi deputati all’arte e non, per presentare il catalogo in giro per l’Italia e la cosa mi fa felice e mi terrorizza. Felice perché spero di parlare con la gente nonostante la mia timidezza e terrorizza per lo stesso motivo[ride]. Vorrei inoltre che Atlans Feminae si arricchisse di un ritratto all’anno per il resto della mia vita, che spero quindi sarà lunga [ride] e poi ho girato delle immagini in una Medersa in Marocco che mi servono per un progetto sul senso dell’infinitoracchiuso nel qui ed ora. Stiamo a vedere.

Nel numero 291 della rivista Segno, 2 pagine dedicate a Eleonora Rossi con un articolo di Marta Michelacci

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