Dopo secoli di simbiosi tra arte e cristianesimo, sembra giunto, dal modernismo in avanti, il momento del rigetto. Come si spiega l’attuale incomunicabilità tra arte e cristianesimo?
Se esiste una incomunicabilità tra il cristianesimo e l’arte – intesa come forma di testimonianza di quest’ultimo –, credo sia dovuta ad una certa difficoltà culturale in materia da parte del cristianesimo e di evasione espressiva da parte dell’arte. Due modi di rapportarsi alla vita che rischiano di non incontrarsi. Una sorta di vecchia coppia di innamorati che stando insieme sul divano a causa di orgogli reciproci non si parla e con il passare del tempo ha sempre più difficoltà a farlo.
Senza risalire alle motivazioni psicologiche o alle cause storiche, il cristianesimo ha sempre avuto una certa difficoltà a raccontare la fede e a farlo artisticamente – probabilmente un ruolo l’ha giocato anche il divieto mosaico di fare immagini. Ma quando è riuscita a farlo ha segnato profondamente la storia dell’arte.
Credo che l’allontanamento della cultura dai temi cristiani, oggi sia causa della difficoltà nell’affrontarli artisticamente da parte degli artisti e, da parte della Chiesa, una quasi inesistente preoccupazione del valore estetico dell’espressione della fede che causa un blocco comunicativo nella trasmissione della stessa.
Ovviamente un artista può essere cristiano nel profondo, ma la sua opera, solitamente, non lo dichiara. Si ha oggi per la fede lo stesso pudore che un tempo si aveva per la sfera sessuale… Hai idea delle possibili ragioni?
Recentemente, mi ha colpito molto una frase della canzone di Rosa Chemical presentata ello scorso festival di Sanremo: io sono cristiano ma non sono cristiano. Un paradosso che nasconde una certa insofferenza riguardo agli effetti di una certa cultura cristiana. Molto strano visto che Gesù privilegiava nella sua predicazione i fuori porta!
Non credo che nella comunicazione della fede ci sia un problema di pudore erotico ma di difficoltà ad entrare in relazione con l’oggetto della fede. Negli Atti degli apostoli anche san Paolo avrà bisogno di Anania, un discepolo maturo, per tornare a vedere cosa gli è successo dopo il disarcionamento sulla strada di Damasco.
In merito a possibili ragioni storiche circa la difficoltà nella trasmissione artistica della fede è noto che, dalla seconda metà dell’Ottocento, le forme dell’arte hanno messo maggiormente in evidenza il valore soggettivo dell’espressione artistica. Questo pone qualche problema di comunicazione oltre al rischio di solipsismo artistico. Le forme di espressione della fede rischiano così o di rimanere ingabbiate nella sfera del personale, dell’intimo, o di legarsi a stereotipi che rischiano di non rendere ragione della stessa.
Alcuni ritengono sia in corso una battaglia contro il cristianesimo, considerato, neoilluministicamente, alla stregua di un culto idolatrico, di una superstizione…
Se i Vangeli ci insegnano qualcosa riguardo al rapporto con gli altri uomini è di non considerarli nemici. Nel film di Xavier Beauvois del 2010 Des hommes et de Dieu, il priore del monastero di Atlas, che vive con la sua comunità un conflitto con i fondamentalisti islamici in Algeria, scrive nel suo diario: “Signore disarma me e disarma loro”.
La questione è quindi imparare a intercettare nelle istanze culturali i moti dello Spirito e, nel nostro caso, tradurli in forme artistiche – quindi a non disprezzare il mondo – e allo stesso tempo aiutare il mondo a sentirsi amato dall’unico da Dio, grazie anche all’arte.
Non credi che la committenza ecclesiastica, dal suo canto, abbia precise responsabilità (penso ai quadretti fluorescenti, alle statue di plastica e alle luci colorate)?
La committenza ecclesiale ha un’enorme responsabilità da quando gli Apostoli hanno avocato a se il governo della comunità. Il frate domenicano Marie-Alain Couturier lo aveva dichiarato aprendo, nella seconda metà degli anni ‘40 del 900, la rivista Art sacré, per informare e istruire il clero in merito alle questioni dell’arte sacra. Questo significa non solo indicare la via ma anche ascoltare lo Spirito che continua ad agire nella comunità. Con questo mi riferisco anche ai linguaggi attuali della comunicazione, che dovrebbero educare alle forme altedella fede e non alla banalizzazione del commerciale.
Per Papa Francesco i materiali poveri o di recupero dicono al mondo che “nell’attesa della venuta del figlio dell’uomo, niente è perduto, niente è scartato, tutto ha un senso all’interno della magnifica opera di Dio”. Questo significa che dovremo aspettarci chiese piene di rottami arrugginiti?
Quella di papa Francesco è una delle letture circa i modi della comunicazione della fede. Bisognerebbe imparare da questo messaggio cosa il Papa ci sta indicando come metodo e non semplicemente come risposta sulle forme dell’arte nelle chiese.



Hai una certa esperienza di interventi artistici all’interno di spazi sacri: a quali criteri dovrebbero ispirarsi?
Nella mia esperienza i criteri di intervento partono sempre dalla passione per quello che si vive e dal piacere nel trasmetterlo. Senza questa passione – che è dedizione – scarsi sono gli esiti.
Poi bisogna chiarirsi i temi da comunicare studiando i modi con i quali la chiesa li ha espressi e infine scegliere i mezzi con il quali, di volta in volta, esprimersi oggi.
Solitamente questi tre elementi camminano insieme e reciprocamente si contaminano e si alimentano.
Non credi che, in assenza di un linguaggio condiviso, le opere d’arte negli spazi sacri dovrebbero sempre essere accompagnate da un pubblico dibattito, o comunque da una riflessione?
Credo, così come spero, che le opere d’arte nello spazio chiesastico debbano partecipare a creare lo spazio liturgico e allo stesso tempo sollevare questioni e muovere la riflessione.
Visitiamo chiese ammirando ciò che la storia della fede ha raccontato attraverso l’arte senza spesso vederci provocazioni, suggestioni o sfide. Assuefatti a un certo modo di rappresentare non vediamo più nella stalla di Betlemme il freddo e la precarietà del racconto della Natività; incantati dalla bellezza di certi Crocifissi rischiamo di non vedermene più il dramma dell’amore non accolto.
Credo che l’arte contemporanea con i suoi mezzi insoliti possa essere di grande aiuto nel mostrare la verità della fede.
L’arte vera conduce sempre a una “conversione”, a un cambiamento di prospettiva. Quali opere o interventi ti hanno segnato maggiormente?
L’arte che esprime un atto di fede è sempre espressione di una conversione. Penso alla Chapelle du Rosaire de Vence di Henri Matisse o a quella di Saint Pierre des Pêcheurs di Jean Cocteau a Nizza come a Notre-Dame du Haut di Ronchamp, realizzata da Le Corbusier.
In questo senso possiamo parlare di testimonianza alla verità prima ancora che alla fede. L’espressione piacerebbe molto a Giovanni l’evangelista.
Se l’arte è vera, autorevole nella sua espressione, accompagna e segna il cammino di conversione di colui che la fruisce.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
In questo momento sto lavorando al progetto di adeguamento della Cappella interna al convento di San Domenico di Palermo e allo stesso tempo a un’operazione dal titolo Sacred earth nella chiesa di San Domenico come omaggio artistico alla Laudato sì di papa Francesco grazie agli scatti fotografici di Max Serradifalco.
Per il futuro prossimo ho da lavorare per una lanterna sacra, un luogo di preghiera e di raccoglimento al centro dell’ampliamento del nuovo Campus universitario Lumsa a Palermo di cui sono l’architetto responsabile. Ma questa è una sorpresa di cui spero si parlerà.