Madrid è bellissima. Non solo, è pure super organizzata. Scordatevi, o italiani, le ore in autostrada, la spasmodica ricerca del parcheggio, la fermata della metro a distanze epocali. Qui tutto è a portata di mano. Persino i musei quasi ti invitano ad entrare. Me ne sono accorto ieri l’altro nel mio ennesimo appuntamento con Goya. Non avevo neanche varcato la soglia della Real Academia de San Fernando, il corrispettivo della nostra Accademia di San Luca, e subito mi si fa incontro un custode che quasi mi toglie la giacchetta di dosso e mi spiega dove conservare la mia borsa della spesa coi regali per la famiglia e quale percorso seguire per visitare al meglio la collezione.
Non che avessi bisogno di particolari spiegazioni. Dovevo, soprattutto, osservare da vicino due capolavori: un autoritratto in cui un Goya già maturo (ma non troppo) dipinge con le candele sul cappello e una cappa da torero – la pittura, questi i sensi riposti, è un affare molto serio: una lotta con la bestia che si scioglie nelle tenebre interiori – e una seconda tavola che ciascuno, almeno una volta nella vita, dovrebbe contemplare: La sepoltura della sardina. In questo piccolo olio, Ensor prima di Ensor e Grosz prima di Grosz, un gruppo di uomini mascherati folleggia intorno a un enorme stendardo, con su impresso un pacioso volto umano. A chi mai apparterrà il suo brutto ceffo? Guardando attentamente si legge, sotto il primo strato di pittura, la scritta “Mortus”, cioè morto. Posto che della sardina cui il titolo allude non c’è traccia, che il vero morto sia proprio lui, Momo, il dio petulante cacciato dagli altri dei che, precipitato tra gli uomini, fu l’inventore del carnevale? Ci vuole sempre qualcuno con cui prendersela, un capro espiatorio da ammazzare. Non a caso, quel “Mortus” sotto il sorriso beffardo di Momo mi ha fatto subito pensare a un grande artista scomparso da due anni: il mio amico Momò Calascibetta – mai nome d’arte fu più azzeccato – che, quanto a sferzare i difetti dei suoi simili, e ad attirarsi le loro vendette, non era secondo a nessuno. Che cosa avrebbe dipinto, scolpito o disegnato, con le sue mani sapienti, riflettendo sul “pasticciaccio brutto” degli antefatti della mostra alla Gnam(c) sul Futurismo – che poi, stando alle prime reazioni, è una mostra bellissima – o sulle lamentazioni “quotidiane” del penultimo direttore della Quadriennale? Io lo so. Avrebbe composto l’ennesimo autoritratto: un fantoccio mostruoso – si scrive Momo, ma si legge Momò – su cui una folla grottesca di critici e collezionisti, artisti e curatori non tralascia di sfogare i suoi istinti più malsani. Se nessuno ha il coraggio di prendersi la colpa, chi mai si potrà salvare?