Gerhard Merz
Anything to say

Anything to say?

Anything to say? A monument to courage è l’opera itinerante di Davide Dormino installata tra il 2015 e il 2024 in varie piazze europee. Andrea Guastella riflette sulle opere d’arte che stimolano la nostra partecipazione

“La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale”.

Così Michel Foucault, che nel suo studio sulla parresia si interroga su questioni fondamentali. Chi è colui che può “dire la verità”? Cosa rischia? Quanto gli può costare il suo “parlar chiaro”? Certo è che, tra tante domande, la parresia sembra un affare specifico della parola. Di immagini Foucault non fa alcun cenno. Del resto, neanche le immagini parlano: sono mute. Ve n’è però una, che desumiamo da un mito, quello di Procne e Filomela, che vale la pena rievocare. Vediamo di che si tratta. La storia di Procne è legata a quella di sua sorella Filomela, violentata dal cognato Tereo, re della Tracia, marito di Procne. Filomela, sebbene Tereo l’avesse privata della lingua perché nessuno venisse a sapere della violenza che questi aveva usato su di lei, riuscì a comunicare l’accaduto alla sorella tessendone le immagini su una tela. Così Procne fece a pezzi suo figlio Iti e lo diede in pasto a Tereo. Quando costui fu informato dalla moglie della morte del figlio, Filomela, coi capelli arruffati e cosparsa di sangue, gli mostrò il capo di Iti: Filomela non profferì parola – e come avrebbe potuto, senza lingua – ma, da allora in avanti, neppure Tereo avrebbe avuto una sua posterità. Secondo il mito, Filomela fu tramutata in usignolo, Procne in rondine, in upupa Tereo. In accordo al rapporto sinestetico che lega parola e immagine, quest’ultima si scioglie in musica, anzi in suono; il linguaggio ritorna alla sua fonte naturale. I tre che avevano fatto violenza al vero, perdono il diritto di parola. Che dico: perdono la loro stessa umanità. La morale dell’apologo è evidente: l’arazzo di Filomela, che rivela la realtà dei fatti, e in questo senso è parresia, non la rende affatto libera. Al contrario, la parresia può condurre alla follia. Il silenzio delle immagini è rischioso. Panofsky era solito affermare, tra il serio e il faceto, che un aborigeno della Papuasia che, senza sapere nulla di Cristianesimo, avesse visto il Cenacolo di Leonardo, non avrebbe incontrato difficoltà alcuna a interpretarlo: lo avrebbe preso per un banchetto molto affollato, e da commensali litigiosi, che non si erano accordati quanto al cibo…

Stando così le cose, come la mettiamo col tradimento di Giuda, con l’istituzione dell’Eucaristia? Per comprendere questi concetti è necessario conoscere non dico le convenzioni figurative, ma almeno il Vangelo! Ne segue che l’immagine non può dichiarare autonomamente né il vero né il falso. Del resto, per i greci la verità è sovente sopravvalutata. Chi dice sempre il vero non sempre fa la cosa giusta, almeno per sé. Un esempio tratto ancora dal mito è la storia di Elios, il sole, colui che tutto vede e tutto sa: un dio di prima classe per tanti popoli del mondo, a cominciare dagli egizi, ma per i greci poco più di un galoppino. Lo si vede dal duro lavoro che gli è affidato – trascinare un carro – e da come gli altri dei, Zeus in testa, lo comandino a bacchetta. Zeus deve incontrare una sua amante? Che problema c’è. Zeus dispone, Elios esegue. E tuttavia, in questa sua posizione subordinata, schiacciata da mille doveri, Elios si prende la sua rivincita. Rivela a Efesto il tradimento di sua moglie Afrodite con Ares. Mai lo avesse fatto. Efesto tende ai due una trappola, e li imprigiona in una rete invisibile nudi, nel pieno dell’atto amoroso, esponendoli allo scherno degli dei. Per Afrodite, un affronto da lavare con il sangue: Elios stesso, e tutti i suoi discendenti (Pasifae, Arianna, Fedra, Medea…), verranno puniti da Eros, il figlio di Afrodite, che li colpirà con le sue frecce. Vivranno amori impossibili, non corrisposti, degradanti. Dire la verità nuda e cruda sembrerebbe, a giudicare da questi esempi, imprudente se non proprio criminale. Questo per quanto riguarda il mondo classico. E per i primi cristiani? Si incontrano spesso, nelle loro catacombe, immagini pagane. Credi di imbatterti in una rappresentazione di un orante che porta al tempio un animale da sacrificare e invece hai davanti agli occhi il Cristo Buon Pastore che conosce le sue pecore, come le pecore conoscono lui. E che dire di tutte quelle viti così invitanti – perdonate il gioco di parole – che non rimandano a un baccanale, ma al martirio? Ho scelto questi modelli un po’ a caso per far capire come non solo possiamo ma dobbiamo reagire, di fronte a un’opera d’arte, su almeno due livelli: bisogna contemplarla, giudicarla se si ritiene opportuno, negli stessi termini in cui ci viene proposta, ma bisogna pure valutare attentamente il contesto di partenza, a cominciare dalle motivazioni di chi l’ha creata. I primi cristiani procedevano a tali camuffamenti da un lato per evitare persecuzioni, confondendosi coi pagani, dall’altro per portare avanti un disegno di inculturazione: una graduale trasformazione dell’immaginario pagano in un immaginario nuovo, come per uno scivolamento di senso impercettibile quanto efficace; se la rana cuoce viva dentro una pentola accesa, non si accorge di finire bollita, come è accaduto agli dei falsi e bugiardi che non veneriamo più. Non si tratta, intendiamoci, di un’esclusiva “cristiana”. Artisti decisamente laici come David, maestro del Neoclassicismo, hanno seguito il loro esempio, creando quel Marat assassinato in cui il feroce protagonista del Terrore ha l’aspetto di un Cristo morto: una “pietà” in piena regola, fatta apposta per creare commozione. Di fronte a un uso così fuorviante – oggi diremmo propagandistico – dell’immagine, che in questi casi dice tutto fuorché la verità, si capisce perché, nella Repubblica di Platone, l’arte e gli artisti siano considerati un pericolo, una minaccia per l’ordine, e vengano prontamente censurati. E tuttavia la capacità metaforica di conciliare opposti come il bene e il male, il vero e il falso, Cristo e un assassino seriale, è uno degli aspetti più intriganti di una cultura – la nostra – che assimila tutto, ma al contempo rende tutto soffice, innocuo, inoffensivo. Se tutto è buono, niente lo è realmente. E lo stesso vale, a caduta, per il vero e per il bello.

Quante opere d’arte contemporanea ci stimolano, più che per la loro eccellenza, per la banalità abissale. No, non cadrò nell’equivoco di indicarvene qualcuna: dovrete pensarci da soli. Mi limiterò a presentarvi quello che, per converso, a me pare un testimone virtuoso: Anything to say? di Davide Dormino, vale a dire una scultura in bronzo, a grandezza naturale, che raffigura tre figure in piedi su tre sedie e una quarta sedia vuota. Quest’ultima è per noi, per chi deve dire qualcosa o per chi vuole semplicemente mettersi al fianco dei tre eroi che rappresentano il coraggio di voler sapere e di rifiutare di essere controllati: Edward Snowden, Chelsea Manning e Julian Assange (Assange, lo ricorderete, è stato da poco liberato dalla sua prigione in forma di ambasciata). Esempi di rivoluzionari autentici, amati e odiati, ma comunque capaci di scardinare le regole di un sistema asfittico e oppressivo. Sia chiaro: nulla potrebbe impedire a un Hitler di salire sulla sedia lasciata libera da Davide e di ipnotizzarci coi suoi discorsi di morte. È già accaduto. Abbiamo assistito ai proclami più efferati, e alla più cruda e disumana repressione. E tuttavia, se approfitteremo della sedia, cioè dell’arte, per vedere più lontano, potremo scorgere, oltre gli orrori di Procne e Filomela, un’oasi felice. Nel frattempo, attendati in terra di nessuno, viviamo l’inferno dell’attesa. Possiamo solo sperare, come scriveva ormai quarant’anni addietro il compianto Glauco Cambon, che sia solo un purgatorio.