Alla ricerca del corpo. Valeria Geremia – 1a parte

Malgrado il significato cruciale della performance sia riconosciuto nell’ambito della storia dell’arte, e molteplici azioni siano ormai entrate nei musei, l’ultima emergenza sanitaria ha seriamente compromesso l’attuabilità delle pratiche artistiche “dal vivo”. Di questo problema, e di altre importanti questioni, come la differenza – nella percezione del pubblico – tra performance e coreografia, abbiamo discusso con Valeria Geremia, performer con un lungo trascorso nelle arti visive.

Sei maestra di Butoh: tra le varie forme di danza contemporanea, una delle più interiori. Il movimento tipico del Butoh, l’Ankoku-butō, significa “danza tenebrosa”. Che cosa vuol dire? 

Danza delle tenebre è un’osservazione, un ascolto del paesaggio interiore, del nostro pulsare profondo intimo, oscuro perché nelle viscere del nostro essere.

L’aggettivo “tenebroso” richiama probabilmente qualcosa di negativo, che susciti paura, ma in realtà è un approccio al movimento, alla danza che vuole cogliere onestamente la nostra “atmosfera interiore”, la parte più sommersa… 

…E quindi oscura.

Sì. È il luogo dove restare nell’attesa, per riconoscere e cogliere un flusso, una vibrazione, un sussulto, un grido, un soffio. Sentire la materialità del corpo, collegarsi saldamente ed inevitabilmente all’entità degli elementi che lo compongono, e percepire un’intima familiarità con la natura. Andare così in profondità da far scaturire, come una liberazione, la voce del Dentro. E quando sarà lei a muovere il corpo, il corpo si lascerà danzare; da questo nucleo centrale sgorgheranno filamenti, che si collegheranno allo spazio esterno, permettendo allo spazio di risuonare in noi e a noi nello spazio. Questa condizione di movimento senza un’azione della mente, del pensiero decisionale è un raro ma meraviglioso dono, che ricevo nelle migliori performance. Quando lo ottengo, con la forza di un sogno le gambe si fondono e morbide e fluttuanti scivolano verso il suolo e poi su e giù, su e giù come spirali dal centro della terra verso il cielo; braccia di rugiada sparpagliano i loro pezzi, miliardi di gocce esplodono nell’aria e poi congelate ricadono pesanti a terra. E da una tale percezione e connessione col corpo – ma possono rivelarsene mille altre – si aprono vie verso energie più sottili.

Un approccio che rende l’invisibile, visibile.

Sin da bambina ho captato la vibrazione di forze, che non sono evidenti nella nostra quotidianità. 

Ciò che si percepisce della vita non è che una minima parte della realtà ed è da questa consapevolezza che nasce la mia pulsione creativa: dimensioni multiple si aprono allo sguardo, macrocosmi infiniti dentro ogni frammento della nostra materia; insita possibilità di superare barriere fisiche e mentali, di scavalcare i condizionamenti che ci limitano nell’intuizione. Questa percezione che appare senza limiti, dà un ampio respiro al dispiegarsi delle sfaccettature dell’essere. Ora, è proprio su questi piani paralleli che si sviluppa un certo tipo di arte, dove le formule e gli algoritmi su cui si fonda la struttura primaria dell’universo sono resi presenti dall’artista. Ogni qual volta questa scintilla si accende, chi assiste vive un’esperienza indimenticabile.

Immagino ti accada spesso.

Sto in ascolto, e spero di avere quella visione, quell’urgenza che non lascia spazio ad altre possibilità. In quel momento si delinea una forma, un fluire di movimenti, rotti da un graffio che solleva la pelle per far danzare gli atomi, oltre il corpo.

Quando ti sei accostata a questa disciplina?

Nel 1996, dopo anni di studi di danza contemporanea, vidi a Catania in una locandina Kazuo Ohno, uno dei fondatori del Butoh, col corpo tinto di bianco, il viso marcatamente truccato e i capelli arruffati sedere contratto in una posizione quasi fetale.

Insolito, per la locandina di un danzatore.

Perciò essa attirò tutta la mia attenzione. La locandina promuoveva un corso di Danza Butoh della durata di tre mesi condotto da Wendell Wells in uno degli ex magazzini, lo spazio teatrale di Via Vela: VELA 6. Capii subito che era quello che cercavo nel mio percorso di danza, che poi si è rivelato un percorso non solo di danza ma artistico, ed esistenziale, nel senso più ampio. In quella occasione conobbi il grande artista e danzatore americano Wendell Wells, che mi ha aperto il cammino verso la Danza Butoh.

Da quel momento iniziai a fare ricerca presso l’Archivio della Sapienza di Roma, visionando foto e video.

Youtube non esisteva.

Sì, occorreva viaggiare: per informarsi e soprattutto per seguire workshop che si tenevano a Berlino a New York oppure a Napoli. Iniziai ad organizzare io stessa corsi e workshop anche a Catania, invitando in Sicilia i più grandi maestri del Butoh.

​I ballerini Butoh tradizionali danzano nudi, col corpo dipinto di bianco. Mi pare che, nel tuo caso, sia fondamentale la decorazione del corpo, che realizzi prima di danzare. È il tuo modo di reagire al contesto in cui ti trovi?

I danzatori Butoh con un orientamento più classico sì, hanno il corpo dipinto bianco. Questa tendenza rappresenta la volontà di acquisire una certa neutralità; ma come dicevo prima si tratta di un approccio dove il corpo, emergendo nella sua parte primordiale, genuina, risuona nello spazio e lo spazio circostante risuona nel corpo. Ogni artista e danzatore sviluppa le proprie creazioni influenzato dal proprio background culturale, ambientale, caratteriale ed emozionale.

Ho lavorato in passato nelle arti visive, da pittrice; il desiderio di trasformare me stessa col pennello è stato sempre molto forte. Vivo la decorazione del corpo come un rituale di trasformazione. Praticare una texture sull’intera epidermide modella i tessuti, muove le forme, cambia la struttura interna. Si diventa creature nuove.

(continua)