Quando una mostra si fa non solo esposizione ma atto critico e istituzionale, il suo significato trascende la cronaca dell’evento. Acquisizioni. Da Parmigianino a Kentridge, in chiusura il 18 maggio 2025 presso l’Istituto Centrale per la Grafica, si presenta come un manifesto tangibile dell’arte su carta, una sedimentazione visuale che raccoglie oltre cinque secoli di tensioni formali, metamorfosi tecniche e sperimentazioni concettuali. Non è solo una rassegna di acquisizioni museali: è una dichiarazione di identità, un gesto culturale che interroga il ruolo dell’istituzione pubblica nella conservazione e nell’ampliamento della memoria visiva collettiva.
L’intelligenza curatoriale si manifesta in un allestimento che accoglie il visitatore in un percorso fluido e stimolante. Si varca la soglia nel cuore del Cinquecento, con un prezioso e fragile disegno di Francesco Mazzola, il Parmigianino: un’Assunzione della Vergine datata 1526-1527, eseguita durante il suo soggiorno romano. Questo schizzo, che funge da bozzetto per la pala Visione di San Girolamo, oggi alla National Gallery di Londra, rappresenta un raro esempio della sua maestria manierista. Acquisito grazie a un intervento di tutela che ne ha impedito l’espatrio, questo foglio di squisita fattura, realizzato a penna, pennello e inchiostro, immortala la Dormizione e Assunzione della Vergine e reca sul retro un abbozzo della Madonna in gloria con il bambino. La sua importanza è accresciuta dal fatto che il recto fu inciso nel 1802 da Francesco Rosaspina, la cui matrice è già parte delle collezioni dell’Istituto.
Il percorso espositivo si addentra nei secoli successivi, quando il paesaggio e la veduta urbana conquistano un ruolo centrale nella rappresentazione artistica. La straordinaria incisione di Gaspar van Wittel, Tempio di Vesta a Tivoli (1710), non si limita a restituire con precisione topografica un luogo, ma si configura come una finestra aperta su un mondo perduto: una visione sospesa nel tempo, riportata in vita dalla la perizia tecnica dell’artista. Accanto, la Veduta di Roma(1880) di Giovanni Battista Lusieri, eseguita con rapide pennellate monocrome, cattura un frammento della Roma settecentesca con una freschezza quasi fotografica.
Il Settecento veneziano risuona dell’estro inconfondibile di Giandomenico Tiepolo, le cui figure di Pulcinella, con la loro irriverente comicità e i loro equilibri instabili, divengono una fonte inesauribile di ispirazione per i vivaci disegni a tecnica mista di Fabrizio Clerici Il naufragio dei pulcinelli (1950). Quest’ultimo, nel Novecento, reinterpreta quella giocosa energia con una sensibilità contemporanea, traducendo la matericità dello stucco in delicate pennellate che vibrano di una modernità inattesa.
L’Ottocento segna un rinnovato interesse per le potenzialità espressive della grafica. Giovanni Fattori, con I guardiani di porci (1887–1890), esplora una concezione dell’incisione che si avvicina alla pittura: la linea si fa nervosa, il segno portatore di dramma, e l’opera assume una dimensione autonoma, svincolata dalla mera funzione riproduttiva.
Con il Novecento, la mostra si trasforma in una dichiarazione d’intenti. L’effervescenza creativa che attraversa il secolo investe anche il linguaggio grafico, qui restituito in tutte le sue declinazioni. La versione perturbante e simbolica di Alberto Martini, come La carne e lo spirito (1928) realizzata con inchiostro di china, convive con la tensione dinamica di Umberto Boccioni, il cui Uomo seduto (1907), inciso ad acquaforte, vibra ancora di una modernità inesausta.


Lo sguardo si fa più interiore con il nudo di Egon Schiele Nudo maschile, (1910) e con il Ritratto preparatorio per un ritratto ad olio (1912–1913) di Gustav Klimt, entrambi segnati da un tratto inquieto e penetrante, che indaga con lucidità le fragilità dell’animo umano. Una sezione è dedicata alle lastre a puntasecca realizzate da Mario Sironi nel 1917, in cui la figura si incarna nel segno asciutto e rigoroso, rivelando la tensione morale dell’epoca.
La mostra si apre con consapevolezza anche alle ricerche contemporanee,– in continua espansione restituendo vitalità al linguaggio grafico. Le riflessioni sulla natura e sul rapporto tra uomo e ambiente trovano voce nelle Pelli di grafite (2009) di Giuseppe Penone, mentre la forza materica di Alberto Burri, con Cretto C (1971), e l’energia giocosa e mobile di Alexander Calder, con Presenza grafica (1972), riconfermano la piena autonomia della grafica come strumento di indagine formale e concettuale. L’opera di Ninì Santoro, Cieli dei Piranesi (1976–1978), rilegge con intensa sensibilità cromatica le celebri vedute del maestro settecentesco, offrendo nuove possibilità interpretative.
Chiude idealmente il percorso Preganziol (2017) di Guido Guidi: una serie di sedici fotografie in bianco e nero stampate ai sali d’argento, che documentano con rigore lirico il paesaggio quotidiano della provincia veneta, rendendo la fotografia parte integrante del racconto grafico.
A suggellare la mostra è l’opera monumentale di William Kentridge, Triumph & Lament Procession II (2016), bozzetto preparatorio per il grande intervento site-specific sul muraglione del Lungotevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini a Roma. Lì, un fregio lungo 550 metri, realizzato per pulitura selettiva, narra con forza visionaria i trionfi e i dolori della città eterna. In questa narrazione collettiva ed effimera, l’artista sudafricano restituisce una memoria stratificata, in cui la fragilità e la resilienza dell’umanità si fondono in un potente gesto teatrale.
In questo articolato panorama, il libro d’artista si impone come spazio di convergenza tra parola e immagine, tra linguaggio e materia. Nella sezione intitolata con una citazione di Bruno Munari – “Il libro d’artista comunica se stesso” – si raccolgono esemplari straordinari: Lucio Fontana (1966), Oreille gardée di Jean Dubuffet, Luigi dalla Piccola: quaderno musicale di Annalibera (1962) di Lisetta Carmi. In essi, la pagina si trasforma in spazio sperimentale, luogo liminare in cui si sviluppa una nuova semiotica visiva.



Acquisizioni. Da Parmigianino a Kentridge non è soltanto una mostra: è un atto di responsabilità culturale. L’Istituto Centrale per la Grafica si conferma non solo custode e archivio, ma fucina viva e officina critica del contemporaneo. Visitare questa esposizione significa attraversare una vera e propria macchina del tempo: ogni foglio è una soglia tra epoche, stili, sguardi. In un’epoca dominata dalla velocità, l’invito è a rallentare, ad ascoltare ciò che la carta – fragile, resistente, vivente – ha ancora da raccontare.