Il percorso basato sulle opere di artisti di caratura internazionale, con caratteristiche identitarie ben marcate a livello di cultura e linguaggio, apre uno spaccato di riflessione sulla produzione artistica in luoghi diversi del pianeta e più in generale sul rapporto arte-vita. È questa la ragione per cui lo spettatore si sente arricchito nella sua individuale presa di consapevolezza e nell’ ampliarsi di conoscenza, oltre al godimento di natura puramente estetica. In ogni occasione espositiva nel corso degli anni, gli spazi di Galleria Continua si sono trasformati in inedite modalità di visione, ideate dai singoli artisti, con realizzazioni di opere site specific.
Nell’attuale rassegna sorprende la volta celeste di Giovanni Ozzola, realizzata sul soffitto all’ingresso degli spazi della torre, luogo della sua personale. Le stelle hanno la parvenza reale, sono state effettivamente osservate dall’artista nelle lunghi notti del lockdown 2020 nei cieli delle Canarie, dove egli vive. Ricordano gli affreschi di Giotto e implicitamente si riallacciano a tutti i notturni stellari dipinti nel corso dei secoli, in una forte polarità di reale e illusorio. Il dialogo fra gli opposti è ribadito anche nel dittico fotografico che idealmente apre la mostra, con un quadro dalla luce espansa, un bagliore di rosa e con un altro dalla luce blu, ben definita e in modo verticale nell’oscurità del fondo. Aspetti dicotomici sono rilevabili inoltre nelle immagini dei bunker che inquadrano il mare, nel contrapporsi di componenti semantiche inerenti il ruolo ricoperto originariamente da queste strutture, oggi dismesse, e l’ameno paesaggio. Segni, scritte, disegni di anonimi visitatori, conservati all’interno di questi edifici, sono talora recuperati dall’artista e rielaborati nei suoi lavori. Nel vuoto cilindrico della torre le cinque campane installate a terra, reperti di navi in rovina, utilizzate un tempo per segnalare la presenza in mare, qui appese a dei cavi calati dall’alto in posizione perfettamente centrale, riaffermano il punto della loro esatta posizione nello spazio e sono metafora di esistenza nelle infinite rotte terresti e marine.
Con il cubano Osvaldo Gonzáles per la prima volta in Italia l’idea del viaggio è il senso portante della sua personale, fra memorie, identità e conoscenze in un doppio binario espositivo. Lungo le pareti del vasto locale dell’Arco dei Becci sono allestiti quadri di immagini facenti parte dell’archivio dell’artista, una in grande dimensione, riferiti a suoi interventi di modifica di ambienti interni, caratterizzati questi dall’assenza dell’uomo e dall’attenzione millimetrale alle componenti strutturali: opere realizzate in materiali semplicissimi quali resina, plexiglass e scocth da pacchi, intessute da sapienti giochi di luce. Al centro dello spazio gallerico Gonzáles ha collocato un’ installazione appositamente progettata, percorribile al suo interno e spettacolare. Realizzata con gli stessi materiali prima citati, ad eccezione del plexiglass, è anzitutto una ricerca da parte dell’artista sulla fisicità del luogo e sul suo possibile cambiamento; al contempo si presenta come una struttura straordinaria per l’impatto ottico e formale, nonché per la lavorazione stratificata della materia che va a congiungere vari punti tra soffitto e pareti, nell’insieme di una luce filtrante e diffusa di colore ambrato.
Donna Kukama e Nandipha Mntambo sono le protagoniste dell’esposizione La matiere vivante nello spazio di piazza della Cisterna. È un dialogo a due voci, sommesso ed esplosivo, di queste artiste nate nella Repubblica Sudafricana durante l’apartheid. Le caratteristiche comuni, relative a cultura di provenienza e alla dedizione all’arte in condizioni non facili, sono superate in un’ originalissima espressione individuale che si esplica in Kukama nei grovigli di segni, dilatatisi in ampie superfici, in un alfabeto inconoscibile, mentre in Mntambo nell’utilizzo di pelli di animale come in un rito sciamanico, opere esse stesse e ugualmente misteriose. La materia è la base di partenza e di sviluppo del loro linguaggio, una materia primordiale e al contempo viva e presente. Per entrambe il lavoro veicola emozioni varie, focalizza storie ed esperienze, intuite più che svelate. Nel video di Nandipha Mntambo, che è anche performer, un’arena vuota diventa lo scenario di un’immaginaria e figurale corrida, in cui l’artista è l’unico soggetto dell’azione, in una solenne e coreografica presenza di sé.
La collettiva Eyes in the sky, a cura di Luigi Fassi e Alberto Salvadori, allestita negli spazi del Leon Bianco, espone opere di Leila Alaoui, Kader Attia, Alejandro Campins, Jonathas De Andrade, Aziz Hazara, Jorge Macchi, Ahmed Mater, Susana Pilar, José Antonio Suárez Londoño, Nari Ward, di profondo valore testimoniale. Il progetto dei curatori è improntato a evidenziare una visione soggettiva non comune, differente da quella ufficialmente accreditata in rapporto a eventi macrostorici. L’interpretazione è quella degli artisti presenti, che provengono da varie parti del mondo e da disparate situazioni a livello politico-sociale, di religione e cultura. Le grandi emergenze del nostro tempo, tra cui le migrazioni, le devastazioni dovute a conflitti sono alcuni dei contenuti delle opere esposte, amare verità travalicate attraverso l’arte, con lo sguardo rivolto all’altrove, con gli “occhi verso il cielo”.