‹‹La scrittura di una parola tende a corrispondere direttamente alla cosa cui la parola si riferisce se chi la legge appartiene alla stessa comunità linguistica di chi la parola ha scelto. Se invece chi ha fatto la scelta appartiene a un’altra lingua […] il segno per gli altri diventa indecifrabile››. In questi termini Dario Trento ha discusso, nel testo in catalogo di una mostra alla Galleria del Risorgimento a Imola (1993), la pratica – allora già trentennale – dell’austriaca Greta Schödl (Hollabrunn, 1929). La sua proposta di indagine, tuttavia, non corre il pericolo di un’adesione spregiudicata al paradigma strutturalista di costruzione del mondo e del senso, al postulato rischioso della coincidenza totale tra realtà e linguaggio dove le cose si accodano alle parole, e da esse nascono. Piuttosto, lo sguardo dell’artista sembra essere rivolto al ‹‹portato soggettivo di chi conduce l’indagine››, al segno, che – come recita il titolo della sua ultima mostra bolognese da LABS Contemporary in via Santo Stefano – si fa traccia del nostro vissuto.
Inaugurata il 28 gennaio 2023 nell’ambito di ArtCity, e aperta fino al prossimo 11 marzo, la rassegna riunisce, per la cura di Silvia Evangelisti, le Scritture su carta datate tra gli anni Sessanta e Ottanta, affiancandole a lavori più recenti su marmo. Se da un lato la familiarità con cui Schödl tratta, con analoga felicità d’ esito, tutti i supporti che sceglie, e la padronanza di tecniche molto diverse tra loro – ‹‹dal mosaico alla tapisserie, dal disegno alla grafica, dall’illustrazione alla performance››, scrive la curatrice in catalogo – sono figlie della sua formazione presso l’Accademia di Arti Applicate di Vienna, dove l’artista ottiene, nel 1953, l’Akademiepreis (premio per il miglior allievo), dall’altro il lavoro sulle superfici risponde a un bisogno intimo di memoria, a un’esigenza di ordine diverso e personale. Molto spesso, infatti, le federe e le lenzuola, i libri che usa e le carte di riso, sono materiali di reimpiego, che ‹‹hanno già avuto una vita››, che ‹‹portano con sé i segni del tempo›› (Guido Santandrea). Su di essi agisce la scrittura, o forse meglio la “scrizione” – recuperando il lessico barthesiano – di Schödl che affida alla ripetizione di un singolo lemma, corrispondente all’oggetto che lo ospita (marmo, lenzuolo, carta…), il compito di ritmare pagine e facciate.
‹‹Scrivere non è trascrivere›› – ammoniva sempre Barthes, nel 1974, in un testo per ‹‹Le Quinzaine Littéraire›› – Nella scrittura, ciò che è troppo presente nel parlato […] e troppo assente nella trascrizione […] e cioè il corpo, ritorna ma per via indiretta, misurata, e per dir tutto giusta, musicale››. Il corpo, e la sua presenza viva diveniva, in un simile inquadramento teorico, la condizione prima del distacco tra parola parlata e parola scritta. Nel lavoro di Schödl, il corpo entra in azione nel primo momento in cui l’atto dello scrivere – e nella fattispecie dello scrivere a mano – risulta sottomesso alla fatica della mano, agli sforzi muscolari che danno vita ai profili mai uguali dei caratteri, non più sottomessi al livellamento da standard tipografico: ‹‹I miei segni – ha spiegato Schödl in un’intervista per ‹‹Harper’s Bazaar›› – nascono dall’influenza della Secessione Viennese e dall’approccio alla poesia visiva››. Dal vocabolario fin-de-siecle, anche le preziosità essenziali dell’oro, che riappare nei vuoti lasciati dal disegno delle lettere creando il ‹‹ritmo emozionale›› dell’artista, una continuità alternativa, un pattern che infrange la logica rettilinea sbilanciandosi nel tracciato ondulare. Il corpo, però, è anche quello del supporto: l’azione scrittoria di Schödl deve scendere a patti con le regole della chimica, con gli attriti di ogni forza e natura, dallo scorrimento veloce su tela alla tempra più ostica della pietra di Trani. Ancora Barthes, nelle Variazioni sulla scrittura, affermava: ‹‹…il supporto determina il tipo di scrittura perché oppone resistenze diverse allo strumento tracciante, ma anche, più sottilmente, perché la contestura (tessitura) della materia (la sua levigatezza o rugosità, la sua durezza o morbidezza, il suo stesso colore, obbliga la mano a gesti di aggressione o di carezza››. Se le regole del gioco del marmo sono abilmente aggirate dall’artista, che con il pennarello nero sceglie di recuperare lo stampatello della lapide ufficiale, il tono frontale della memoria storica normalmente incisa nella pietra, nelle tele e nelle carte, formati predisposti al mezzo grafico e pittorico, Schödl si concede alla scansione diagonale, al sapore “gotico” delle lettere-guglie; nell’economia dei pieni e dei vuoti, nella gestione degli scarti cromatici, il suo spirito – anche nell’esibizione franca del residuo gestuale – è talvolta affine al Boetti delle biro blu e del mondo “messo al mondo”.
Come Boetti, anche Schödl dà vita a un cosmo tutto suo, uno spazio di possibilità prelinguistiche dove è il gesto insistito della mano ad offrire il fondo esperienziale di base da cui far poi emergere concetti, lettere e simboli. Una scrittura gestuale e prelinguistica, o archiscrittura, nelle parole di Jacques Derrida, che per Maurizio Ferraris, sulla scorta del primo, ‹‹ha preceduto la parola››. Una tesi coraggiosa, questa, che rovesciando l’impianto classico (Pensiero-Parola-Scrittura) appare, per certi versi, affine allo spirito di Schödl: tornando all’incipit, l’artista fugge dallo schema consolidato, reclamando la precedenza del gesto scritto sulla formalizzazione logica, la priorità dell’azione sulla costruzione del discorso, la primazia del corpo sulla mente, perché ‹‹la parola›› – scrive nella poesia all’ingresso – non è che ‹‹una linea cui diamo significato››.
Greta Schödl
Il segno traccia del nostro vissuto
a cura di Silvia Evangelisti
LABS Contemporary Art
Via Santo Stefano, 38 – Bologna
28 gennaio – 11 marzo 2023
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