Portami con te lontano
Giorgio Caproni
…lontano…
nel tuo futuro.
Diventa mio padre, portami
per la mano
dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda
Caro Franco,
come stai?
Se c’è una cosa che odiamo entrambi è il formalismo sterile, l’affettazione paludata. Vergare un testo critico, quando di miei hai già dovuto sorbirtene vari, avrebbe aggiunto, ad indiscreta lode, ingiuria implacabile.
Consuetudine vuole piuttosto che alla domanda tu risponda ritualmente “come vuoi che stia: come i vecchi; ma anche tu, amico mio, dovrai invecchiare”, e io prosegua auspicando di pervenire il più tardi possibile al venerabile traguardo che hai appena conseguito.
Che lungo viaggio, il tuo: gradini su gradini. Scale strette, interminabili come quelle che da Ibla si arrampicano a Ragusa Superiore o le altre, oggi perdute, declinanti verso il fiume sino all’antica stazione. Le scale che, da giovane, hai attraversato mille volte per giungere a questa o quella meta. E non parlo del Continente, dove hai svolto il servizio militare, e da cui sei tornato in compagnia della tua sposa. Parlo del desiderio ardente di cambiare condizione, di liberarti, mediante il lavoro, da una povertà dignitosa ma crudele, che ti impediva di esprimerti come avresti voluto. Sei nato, hai sempre gridato, dalla parte sbagliata.
Ma cos’è giusto o sbagliato? Quando, in groppa a un asino, ti aggiravi per le tenebre profonde, credevi di saperlo. C’era un volto al tuo fianco, che non si stancava di fissarti. Penso fosse tua madre. Quella madre che, sola, si fidava di te, del suo figliolo, e che volevi a ogni costo ricambiare.
Una volta pittore, lo sguardo sarebbe diventato il tuo mestiere. Ne hai incontrati, di sguardi: languidi, malevoli, sfacciati. Che dico incontrati: li hai braccati con feroce ostinazione, cercando in tutti la dolcezza di quello sguardo primo. Invano. Se gli sguardi di altre donne potevano in qualche modo ricordarlo, quelli degli uomini erano cupi e respingenti. Perciò negli ultimi hai riconosciuto i mostri, mentre le donne hanno finito per assurgere a immagine del bene. I mostri li avresti tenuti prigionieri con te, sulle pareti di casa, per studiare gli avversari, mentre le grazie delle fanciulle in fiore avrebbero soddisfatto gli appetiti di un pubblico distratto e compiacente.
Ti ritrovasti, senza accorgertene, nei panni di Ercole a un bivio esistenziale. Avresti potuto crogiolarti nella prosperità che ti eri guadagnato o, piuttosto, servirtene per proseguire il tuo cammino. Come Goya, l’artista in cui ti sei identificato, hai preferito rilanciare. Di solito il Goya nel pieno delle forze è considerato l’interprete del bel mondo madrileno, e quindi delle dame che soleva lusingare. Il Goya sordo è, invece, il custode e il confidente dei folli, dei perduti. Niente di più falso! La malattia rende vivida la percezione del male, ma è il benessere, la sicurezza della corte che consente all’artista di guardare nell’abisso, lasciando che l’abisso, a sua volta, guardi in lui.
La donna e i mostri, come il giorno e la notte, erano dannati a stare insieme. Lo spettacolo doveva continuare. E tu, da bravo attore, non ti sei tirato indietro. Pur attaccato come un ramo ai tuoi luoghi, alla tua gente, alle nostre tradizioni, hai percorso in lungo e in largo il mondo inseguendone i fantasmi. Con Goya, hai frequentato i contemporanei Baj e Fiume, Guttuso e Bacon, Kantor e Nolde, Picasso e Pollock, Appel e Jorn.
È però coi classici – uno per tutti il grande Munch – che hai stabilito rapporti di amicizia e confidenza. Come Goya si era invaghito della Francia, tu hai subito l’attrazione irresistibile del Nord. Il Nord espressionista, certo. Il Nord della definitiva rinuncia a ogni forma di perbenismo o ipocrisia. Ma anche il Nord delle immense distese, dei silenzi interminati che Federico Zeri ti consigliò di riempiere con ciò che avevi dentro.
Acconsentisti, e ne nacque una fresca, insuperabile stagione, in cui avesti per compagno Turner. Da lui hai appreso che la tempesta che ti scuoteva le viscere non era tua soltanto: era nel mare, nel vento, nella luce dell’alba e del tramonto. Perché anche la natura, come noi, sente se stessa, e il suo petto è agitato da inconfessabili passioni.
I giovani creano inseguendo l’amore. I vecchi invece lo fanno inseguendo la giovinezza che insegue l’amore. Pure tu, che non eri più giovane, come hai sorpreso gli spiriti aleggiare sulle acque, così non hai cessato di ammirare la bellezza femminile. Ma con quale distacco. Se nei primi dipinti i corpi vibravano di ansia e di piacere neanche fossero esplorati da una mano, negli ultimi raggelano, si chiudono in sé stessi, non respingono l’alone funerario delle foto. Persino i mostri, rabboniti, al livore prediligono il sarcasmo.
E come dargli torto. La vita, un tempo prodiga, ti ha sottratto il figlio amato. Hai dovuto, ancora una volta, scivolare nelle tenebre interiori. Ne sei uscito deciso più che mai ad attendere, come nella Fucilazione di Goya, il tuo destino a occhi aperti.
La vita, ti sarai detto, è soltanto una corrida: coscienza della vanità dei gesti ed esaltazione per la loro leggerezza; monotona contemplazione dell’uguale e trionfo del momento decisivo; ebbrezza nuziale e pompa funebre.
Ora, il matador che fredda il toro è il guapo che si fa beffe della morte. Ma tu che sei già morto tante volte, non eri solo l’uomo: eri anche il toro, la vittima furiosa ma innocente. E la donna, la donna era il torero. Credevi di inseguirla, e invece eri inseguito. La bella che disperatamente corteggiavi era la morte.
Amico mio, è storia antica e nuova. La stessa che Lorca cantava dell’amico Ignacio Sánchez intonandone il lamento: “Non voglio vederlo! / / Di’ alla luna che venga, / ch’io non voglio vedere il sangue / d’Ignazio sopra l’arena…”.
Sempre l’amore finisce, ma questa non è affatto una buona ragione per smettere d’amare.
Si narra che Picasso, conversando con l’amico Dominguín, celeberrimo torero, ebbe a chiedergli, “Perché combatti i tori, Luis Miguel?”. Quell’altro a domanda rispose con domanda: “Perché dipingi, Pablo?”. Sull’argomento i due non torneranno più.
Continueranno, come tu stesso fai sempre, a dipingere e toreare.
Del resto, scriveva ancora Lorca, “Solo il toro ha il cuore in alto! Alle cinque della sera”.