Un dialogo fra il mestiere e lo stupore:
Atanasio Giuseppe Elia

L’ottobre dello scorso anno presso Palazzo Moncada a Caltanissetta si è svolta la mostra di Atanasio Giuseppe Elia Sogno di un viaggio: un excursus che, riporto dalla mia presentazione, “vuole riassumere gli ultimi dieci anni della sua carriera; anni in cui i suoi dipinti si sono sviluppati in assoluta coerenza: quasi fotogrammi di un’unica pellicola, fermo immagine di un film che scorre in un immenso salone, in un non luogo, facendo balenare frammenti di mondi irriducibili e lontani. La pittura di Pippo nasce infatti da un’ombra che è soprattutto distanziamento e sottrazione: realizzati a partire da oggetti o figure svincolati dal loro contesto originario, i suoi quadri sono come deprivati di materia e di colore; paiono congelati, sbiaditi. Le sue figure umane, quando compaiono, sembrano statue, foto di sconosciuti o manichini. Neppure le finestre e i corridoi che si aprono qua e là invitano alla fuga; non rivelano varchi ma ostacoli in un viaggio che non conduce in nessun dove. In questo ‘teatro del silenzio’ – così Walter Wells ebbe a definire la pittura di Hopper – l’autore è come il minotauro di Dürrenmatt: un individuo che, in un labirinto di specchi, rimane sempre solo, ai confini della gioia e del dolore; cosa accadrebbe se, nel tentativo di stabilire un contatto con l’Altro, distruggesse il suo riflesso, la parete dipinta che lui stesso ha creato e lo ha reso prigioniero?”. Di questo, e di altro, abbiamo discusso con l’artista che, come ha scritto Diego Gulizia, che ha curato la mostra con me, “non è solo testimone dei suoi eventi, delle sue solitudini, delle sue sensazioni di impotenza. Attraverso le sue riflessioni visive egli diventa il rappresentante dell’intera collettività, di quella cultura del vivere sociale che attribuisce all’isolamento la negazione dell’esistenza, alla segregazione domestica la sconfitta della cultura della solidarietà”.

Come ti sei avvicinato alla pittura? 

Mi sono appassionato al mondo dell’arte sotto la guida dei miei genitori Giovanni (mobiliere d’arte) ed Elena (merlettaia e ricamatrice) e di mio nonno Giuseppe (scalpellino), dai quali ho ereditato una sensibilità particolare nei confronti delle arti minori. Ho quindi intrapreso studi artistici presso la Scuola Statale d’Arte di Comiso, dove ho curato la mia prima formazione e acquisito le prime nozioni dell’equilibrio compositivo e della sicurezza grafica. Nello stesso periodo è stato per me importante l’incontro con il maestro Gioacchino Distefano presso il suo studio, che ho frequentato con assiduità. 

Qui ho approfondito varie tecniche pittoriche, fatto le mie prime considerazioni sulla pittura contemporanea… I miei primi dipinti erano riflessioni sul mito e sul mondo antico, dalla cultura greca agli affreschi di Pompei. Successivamente ho avvertito l’esigenza di dedicarmi alle figure umane, in un contesto in cui gli elementi di contorno – una persiana, i pannelli sui muri – mi riportavano agli elementi tipici dell’architettura mediterranea.

Analizzando i tuoi lavori negli ultimi vent’anni, è evidente un graduale passaggio dall’astrazione alla figurazione. Cosa lo ha determinato? 

Dopo una pausa di silenzio, negli anni Ottanta ricomincio la mia sperimentazione ponendo l’accento su una tecnica di manipolazione sociale: il manifesto. Uno strumento di persuasione che si insinua nelle nostre giornate, e che nella mia ricerca pittorica viene strumentalizzato a sua volta. Analizzato in ogni sua parte, diviene forma e colore, suggerisce nuovi spazi e viaggi. Il manifesto, così rivisitato, si fa superficie: non supporto all’immagine, ma immagine esso stesso, tesa tra sogno e realtà.

Dal 2010, dopo un proficuo ventennio di ricerca e sperimentazione tra Informale e Astrattismo, torno alla figurazione: in questi nuovi lavori, nutriti attingendo al “magazzino dei ricordi”, i legami tra presente e passato si rinsaldano anche grazie ai continui accostamenti con la fotografia, che diventa il supporto ideale nel mio colloquio con la pittura.

Scatti personalmente le tue foto?

Alcune volte sì. Ma altrettanto spesso le traggo da giornali o riviste. 

Ritorni, tra le altre cose, alla forma trittico.

Dentro questa struttura, che è un rimando esplicito a una tradizione secolare, propongo la specificità del mio mondo, fatto di visioni cosmiche, di cieli siderali percorsi da profonde oscurità e da balenii di luce nei quali galleggiano soffici nuvole, vibrano lacerti di colori primari con la permanente dominanza di squillanti rossi. Così provo a mettere in atto un dilagante flusso visionario, che si dirama dagli astratti rapporti cromatici all’affiorare di immagini riconoscibili come la memoria del paesaggio, la ricerca di atmosfere rarefatte, il turbinare e dispiegarsi di figure misteriose, a volte inquietanti, a volte declinate in inattese, placate serenità, altre volte in fascinose dissonanze… 

Un ruolo essenziale, in passato come negli ultimi lavori, spetta al colore. Che cosa rappresenta per te? Lo associ a particolari concetti o stati d’animo?

Io col colore ci parlo; nei miei dipinti esso risalta e primeggia su tutto. Sono innamorato dei colori: frammenti di vita che hanno l’aspetto della terra, del sangue, del cielo e di tutte le cose; raggi di luce che, a volte, denunciano implacabili le imperfezioni della materia. Nell’uso che ne faccio – come negarlo? – è presente una memoria della mia terra natale.

Nei tuoi dipinti ricorrono stanze, soglie, interni: quale è il tuo rapporto con lo spazio: un’apertura o una prigione?

Se si riesce ad “entrare”, si potrà coglierne il “fascino” e trasformare il rischio in un’esaltante vittoria. Nei miei dipinti il singolo fotogramma non può considerarsi l’inizio o la fine di un viaggio; al contrario, ogni fotogramma richiede il sostegno dell’altro perché si abbia chiara la visione dell’intero processo. 

Chi sono, a parte Hopper, i tuoi maestri, gli artisti cui ti senti vicino?

Anzitutto i miei docenti, da Belletti a Brancato, e in primis Gioacchino Distefano. Tra gli altri che di sicuro hanno suscitato in me una suggestione, Burri, López Garcia, Bacon, persino Caravaggio… Quel che conta è non accogliere passivamente un influsso, ma trascenderlo in qualcosa di completamente nuovo.

Che cosa è per te il dipingere? 

Un dialogo fra il mestiere e lo stupore. Così prendono forma presenze che sembrano sfuggire alle leggi di gravità, fermate in un momento d’incanto. Quelle sottili emozioni che guidano la mia mano, decisa e lenta nello stendere i colori, ma riflessiva e morbida nel seguire gli effluvi policromi. L’idea, solitamente, definisce il primo getto, la prima stesura. Poi l’occhio si ferma, ascolta il disporsi della pennellata sul piano, legge l’organizzarsi delle tensioni nel campo visivo, contrasta il grido del colore con il suo complementare o attenua la sua forza, sciogliendolo nelle sue componenti tonali. 

Che cosa pensi della pittura italiana di oggi?

Nuovi Futuristi, in grado di smuovere le acque, non ne vedo. Chi può fugge all’estero. Chi rimane lo fa a rischio della fame. Se dovessi lavorare per il mercato, o per un successo momentaneo, avrei smesso da tempo.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

A continuare il mio viaggio verso l’ignoto e l’indicibile nei meandri dell’io. Un viaggio in compagnia della pittura. Stiamo invecchiando insieme, io e la pittura. Ci frequentiamo da così tanto tempo che chi dipinge, e chi è dipinto, non saprei dirlo più.