ARCO Lisboa
Da sinistra, Guglielmo Manenti e Andrea Guastella

The “beautiful flash” of Paliemmo

C’era un tipo, a Palermo, che la notte veniva a trovarci da Peppino, un bravissimo barman. Non andavamo da Peppino per discutere di politica, organizzare una raccolta fondi, difendere i poveri. Macché, no. Andavamo lì perché anche allora credevamo che non avesse senso, nessun senso, stare al mondo (il mondo, anni dopo, ci ha dato ragione; questo è ciò che chiamo ironia…).

Erano anni strani, quelli universitari. Cercavamo di costruirci un futuro, perdendo il presente, con libri ammuffiti e inutili, scritti da autori altrettanto ammuffiti e inutili, all’interno di aule con affreschi ipocriti di Marx o Che Guevara, alla mercé di prof. avidi, che ci riempivano la testa di tante parole, oggi tutte decomposte (progresso, innovazione, crescita, economia, profitto); parole che i prof. ci imponevano di memorizzare e che richiedevano indietro abbellite, sotto il ricatto di un voto.

Sì, erano anni strani, diversi. Anche Palermo era diversa. Sì, sì, diversissima. Mica la friggitoria fighetta e chic all’aperto che è adesso! Era una città un po’… un po’, non so… buia. Vicoli bui, piazze buie, gente buia. Pure l’aria era buia.

Tuttavia, girando l’angolo per sbaglio, l’umanità ti offriva – se lo desideravi – alcune assurde verità sotto forma di giochi pirotecnici fluo: ragazzine che praticavano fellatio ai senegalesi attendendo loro turno al cesso della taverna, impiegati in cravatta che vomitavano Forst sulle scarpe lucide e toccavano con le mani le alpi austriache, punkabbestia nervosi che cercavano cibo e vestiti tra i cassonetti, fascisti che incendiavano i bangla dopo averli sodomizzati, vecchie ubriache che ti rincorrevano per baciarti, uomini che rapinavano i cinesi per pagarsi il biglietto al cinema porno… Ma torniamo al tipo.

Il tipo veniva trovarci da Peppino per due motivi: primo, non gliene fregava un bel nulla di noi; secondo, a volte qualcuno gli offriva un Mojito, un bicchiere di vino, lo zibibbo, un «ciao».

Era piccolo piccolo, con capelli grigio-gialli ispidi, occhi verdi, mani sudicie. E profumava del classico profumo di umanità che hanno addosso i barboni, i barboni con le facce spente, che parlano da soli, coi demoni, coi lampioni.

Qualcuno, a volte, al tipo gli porgeva una grappa di troppo. Quella grappa di troppo che, come una chiave, gli apriva il sesto chakra. E lui, luminoso in fronte, iniziava a parlare, a parlare, a parlare. Parlava con fascino, con freddezza, con spudoratezza. Noi invece, con umida commozione, ascoltavamo le disgrazie che la vita gli aveva offerto, le disgrazie che lui con forza aveva respinto, le disgrazie che l’avevano consumato, più di quanto consumato non fosse il suo fegato.

Erano serate, quelle con il tipo, a metà tra la tristezza e la pietà. Che volevi non finissero mai, o all’istante. Serate di preghiere inascoltate, di reclami, di auspici, di fallimenti… in cui l’esistenza si ritorceva contro, divenendo caotica, come rifiuti in una discarica.

Eppure l’alba – che è una cameriera – al primo raggio di sole metteva tutto a posto. Quello che avevi accanto, e che era stato per una notte il tuo amico, il tuo amante, il tuo nemico… il barman, le vogliose, i maiali… i cani, gli studenti, le zie, gli spazzini… tutti, tutti, illuminati dall’astro di Zeus, perduto l’alcol, improvvisamente non erano più nessuno. Erano stranieri, erano sconosciuti. Erano “cose” che tornavano da qualche parte. Erano semplicemente.

Il tipo ci lasciava, mandandoci a fanc… E aveva il diritto di farlo, ce l’aveva, lo so. Noi ricambiavamo, anche se non conoscevamo il suo nome. Il nome che gli affidammo – lui non volle mai dircelo, forse per difesa – fu Paliemmo. Perché quel tipo era esattamente così come un folle in buona fede può immaginare questa città: una dea di grigio cemento e di fioriti giardini, di olio fritto di panelle e fumo di stigghiole; una dea meravigliosa, distrutta, risorta, di nessuno.

Ora… se il tempo esistesse davvero, e non fosse un’invenzione umana, questi ricordi avrei dovuto perderli, insieme a quel tipo senza nome. E invece altri due “tipi”, Guglielmo Manenti e Andrea Guastella, dalle viscere del tempo hanno salvato la Palermo che ho conosciuto, o probabilmente soltanto immaginato, in un documento di una ventina di pagine, edito dalla Aurea Phoenix Edizioni, intitolato “Beautiful flash”.

Il racconto illustrato, che ritengo una sorta di sogno andato storto – un sogno che ha affogato l’attività cerebrale del dormiente – , è stato in mostra l’11 ottobre al CaravanSerai di Palermo, e l’8 novembre al Centro Servizi Culturali “Schembari” di Ragusa.

Sia in mostra, che sfogliando le pagine, mi è parso di rivedere quel tipo senza nome (e anche i miei ricordi), mentre alla fontana della Vucciria, una domenica sera di primavera, solitario più della luna in un cielo vacante, mangia würstel, beve Tavernello, urla oscenità, e ride e sciacqua i suoi genitali mostrandoci il terribile viso di un inferno che i buoni chiamano teneramente “vita”.

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.

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