Simone Stuto, "Attraversando il bardo", 2024, Olio su tela, cm 120 x 150, ph. Nicola Morittu

Simone Stuto. Luoghi e tempi del visibilio

A Roma, negli spazi di Curva Pura, è stata ospitata la personale Simone Stuto. À rebours ascoltare era il tuo solo modo di vedere, con una selezione degli ultimi lavori dell’artista, a cura e con testo critico di Michela Becchis.

À rebours ascoltare era il tuo solo modo di vedere è trasfigurazione di un pargolo nido del visibilio, in cui – nell’apoteosi dell’impercettibile – si cela l’oro intimo della quiete all’ombra di roseti, mentre una chimera alata è fardello fantastico di rimembranza celeste. In un simbolismo istintivo, si districa il percorso tra le quattro mura dello spazio che trae radici dal luogo che Leonardo Sciascia definì la ‘piccola Atene’ e che diede i natali all’artista.
Tra le corrispondenze sibilline delle cose, ritroviamo quella sensazione descritta da Walter Binni, «una pura atmosfera musicale che porta l’eco di un nuovo e misterioso mondo, ignoto agli antichi», essendo la poetica ricoperta della fondazione del contemporaneo sentire, in cui l’artista affonda un proprio dizionario individualista e non dimentico dell’incanto del passato. In effetti, proprio qui subentra la posizione di Mircea Eliade, secondo cui l’implicazione simbolica non annulla il valore concreto e specifico di un oggetto o di una operazione, ai quali ne aggiunge uno nuovo, senza intaccare i loro propri e immediati, e rendendoli ‘aperti’.

C’è da chiedersi se tali ‘aperture’ siano mezzi evasivi o canali d’ingresso alla vera realtà del mondo.
Se è vero che è l’alba della luce a farci redimere dal buio dell’ombra platonicamente percepita, il Nostro allontana l’inganno del reale dalla conoscenza vera, seguendo la percorrenza del sentimento, lo stesso che contrae, in pose smembrate, i corpi in Più prezioso è il contatto del tuo labbro nell’ombra (2023). Tuttavia, essendo ‘eraclitamente’ insostenibile la sopravvivenza dell’oscuro e della riemersione del profondo con la morte della luce, rimaniamo consapevoli che, solo realmente, il soave è allontanamento dalla presa di coscienza di un ingannevole inferno.
Entriamo così nella morsa della vanitas dell’opera, in cui si osservano bolle deformi oscillare nella loro essenza ovale come elemento pulviscolare nell’aere.
Se eminenti architetti, come Sebastiano Serlio e Vincenzo Scamozzi, ci raccontano l’evoluzione della forma architettonica dal cerchio all’ovale, sono i versi di Poe e i ritrovamenti nell’arte pittorica dei Maestri a ricondurci all’apologia dell’effimero che l’artista ha voluto reincarnare nell’opera. Del resto, è la contemplazione operata dal personaggio del racconto breve “Il Ritratto Ovale” del poeta statunitense a scambiarsi delle analogie con l’osservazione compiuta dal personaggio Jean Des Esseintes del romanzo “À rebours” di Joris-Karka Huysmans.
In un interno-esterno si ergono, semisdraiate, le due figure su un giaciglio e in una temperie volutamente noir dalla consistenza ambrata che è sottile sedimentazione di velature, in cui il rossore del notturno è sinonimo di interno e intimità. Siamo in grado di entrare nel mezzo delle stratificazioni che costituiscono la densità dell’aria, e unitamente negano lo spazio prospettico per avvicinarci ai dettagli decorativi, come l’ornamento dipinto sulla fascia bianca e tratto da un’arte minore, quella della ceramica, secondo un’azione che Simone Stuto ripercorre in tutto il suo operato. Le bolle divengono così un brano tra gli elementi astratti che amplificano la solidità aerea.


È ancora un verso poetico ad introdurci nell’opera E gli aneti vi odorano soavi (2023). Si può immaginare di assistere a un eclissamento della collera del “Colosso” attribuito a Goya, la cui disperazione per il presente lascia il posto alla figura simbolista dell’individuo ad occhi chiusi che sovrasta, in un fitto bosco, il finissimo metaquadro che, nuovamente, evidenzia lo scarto tra realtà rappresentata e immagine della rappresentazione della realtà. La decorazione è tratta da una miniatura persiana medievale e ricorda l’ornamento delle pareti delle moschee persiane.
Nel tempietto, il sacro è il mistero del cuore delle cose, quel qualcosa di interiore, prezioso e legato ai sentimenti. È involucro e tesoro. Da elemento astratto si fa concreto, grazie al rapporto con la struttura architettonica. Qui Afrodite versa “nelle tazze d’oro/chiaro vino celeste con la gioia. (Saffo, “Invito all’Erano”).


Mite è, dunque, il passaggio al Crepuscolo (2024). Il nome dell’opera deriva dal latino “creper” e indica i due momenti ben descritti da Charles Baudelaire in “Le Crépuscle du soir” e “Le Crépuscle du matin”, un’attesa che è sintomatica di un lento cambiamento ma anche di una perdita e di una fine che trascina il volto ad occhi chiusi alla malinconia. E il “Crepuscolo” è anche il titolo di un’opera di Michelangelo sita nella Sagrestia Nuova in San Lorenzo, a Firenze. È, infatti, una delle quattro allegorie delle “Parti della Giornata”, una personificazione maschile, il cui volto mesto presenta lo sguardo teso verso il basso.
Nel maggio del 1888, Odilon Redon afferma: «Sotto gli occhi del suo prigione, quanta elevatissima attività della mente! Dorme, e il sogno inquieto che scorre sotto quella fronte di marmo ci trasporta in un mondo commovente e riflessivo» (“A soi – même”, 1912).  
C’è un fortissimo legame tra i tre artisti – Michelangelo, Redon e Stuto – che annoda la riflessione intorno ai lavori fino a spingere il riconoscimento del formato circolare dell’opera come tributo al tondo Doni, e i corpi all’interno come recupero di quella dinamicità, movimento e anatomia degli ignudi michelangioleschi, principio fiorente del Manierismo. Si ode, inoltre, anche il ritorno simmetrico di un rigore medievale, da cui si ricava un piacere verso l’attitudine della gestione compositiva dell’opera.
La possenza delle due figure di spalle non manca di quello sconcerto anatomico dei dannati di Orvieto del Signorelli che anche Michelangelo aveva guardato. La figura in primo piano assume, secondo la concezione platoniana, il ruolo demiurgico di ricongiungimento delle due figure di rimembranza michelangiolesca con la forza ordinatrice che vivifica la materia, dandole un ordine e un nesso intrinseco.
Si coglie un parallelismo tra la sfera psichica collettiva-individuale e quella cosmica. Nell’opera, l’analogia si sviluppa tra il rimosso e l’inconscio, la parte sepolta e riemersa nel sogno e ciò che riaffiora dell’umano a seguito della deposizione, secondo l’azione di ri-portare alla luce.  
Il fenomenico si manifesta come percezione di una costruzione stratificata dell’aere, in cui la pennellata importa l’elemento psichico, giungendo all’unione del circostante e dell’interiore.
Possiamo afferrare un’ultima assonanza, come apertura di altre letture, nel simbolismo decadente baudelairiano che assimila nuovamente l’artista a Des Esseintes.
Entrambi osservano la natura falsificata dall’artificio per sostituirvi, attraverso la pittura, la realtà vera del sogno che ne fa riaffiorare la coscienza dettata dall’essenza, in cerca di quell’“antica speranza” che l’uomo del romanzo ha perduto “in un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari…” della stessa.


Così Michela Becchis, nel suo testo critico, scrive: “… nel lavoro di Simone Stuto c’è un costante à rebours, un risalire, un misurarsi che non si esaurisce mai nel guardare, nel comporre una personale enciclopedia, nel mettere in fila in modo estenuante capolavori ma diventa un continuo ripercorrere se stessi”.
Dell’universo mentale di “À rebours” tra Balzac, Verlaine, Zola e Flaubert, significativo per il Nostro è il “simbolismo” di Gustave Moreau, del quale la passione per il disegno sfocia nello studio per la pittura che abbandona il canonico per consacrare un proprio stile personale, in cui colore e segno si congiungono, con elementi eterogenei e orientali, nella ricerca pittorica.

Lo stesso dualismo tra le figure si ripercorre, in una perfetta unione, nell’opera Attraversando il bardo (2024). La chimera è simbolo interno al lavoro e soggetto anche caro a Moreau che ci fa immergere nell’arte del Nostro che la colloca in secondo piano, segnando l’abisso dell’immagine, in quanto creatura dell’Inafferrabile, del Sogno inseguito dall’uomo, dell’orizzonte e di ciò che esso cela, dello spirito trascendente dal corpo, in cui è costretto per andar oltre la zona del conosciuto verso l’ignoto, da cui trae la sua forza vitale. Quell’energia, di cui è dotata la chimera, conduce il continuum mentale nel bardo, passaggio alla nuova vita post mortem e al ritorno alla natura divina. Il mito fa riemergere l’indicibile, oltre le diversità culturali, trasmettendo un messaggio universale. D’altra parte, il termine “simbolo” è derivazione di “symballo”, ossia “mettere insieme”.

Nell’immaginario medievale, il mondo animale era esaminato dalla dottrina agnostica e il cosmo era abitato da nessi tra astri, animali dell’aria, della terra, dell’acqua, le piante e le pietre, legando il visibile all’invisibile e il reale all’immaginario. Come sostiene Jurgis Baltrušaitis nella prefazione a “Il Medioevo fantastico”, il Medioevo non rinuncerà mai né al fantastico, né ai vasti repertori antichi e esotici che hanno a lungo nutrito la sua immaginazione.
L’artista ha alimentato il suo immaginario proprio con i cicli dell’Inferno, delle creature deformi, degli esseri favolosi che si moltiplicano nei Bestiari, nei margini dei manoscritti o nella decorazione scultorea, e che alterano l’unità del mondo vivente e fanno rivivere le fonti che hanno accresciuto le fantasie e le leggende dell’Antichità classica e dell’Oriente.  Jurgis Baltrušaitis afferma: “…l’Oriente si è bruscamente aperto fino alla Cina che ora segna profondamente lo sviluppo di molte grandi civiltà”.
Il Medioevo è, infatti, cresciuto per effetto di questi contatti, portando mescolanze di corpi e di nature eterogenee, apparendo più misterioso e completo. Nel Duecento, l’Islam assume un ruolo preponderante nella diffusione della metafisica, della fisica e della morale aristoteliche, conosciute in quest’epoca soprattutto per il tramite di compilazioni arabe e dei Commenti di Averroè, fino a che, insieme alle comunità cristiane d’Oriente, è rifornito l’Occidente. Infatti, come si apprende dal testo citato, “Nel Duecento si ha una vera rinascita dell’ornamento, accompagnata da una migrazione proveniente dal Meridione, sempre sensibile alle influenze dell’Oriente. Nella pittura questi temi furono spesso introdotti attraverso i tessuti…”.


Ma non è solo il Medioevo a filtrare questo lavoro del Nostro, come la sua intera produzione. Ciò che risulta inconfutabile è sicuramente l’omaggio a Munch e alle sue figure, site in primo piano, sulle rive dei fiordi. Inoltre, l’artista porta agli estremi l’operazione che Courbet svolse in opere come l’Atelier, negli anni rivoluzionari parigini del Diciannovesimo Secolo, e che consisteva nell’interazione tra figure concrete e inventate, svuotandola da connotazioni politiche e rendendo i contorni dei personaggi, tangibilmente vissuti, del tutto estranei dal contingente. La figura con il colletto è ripresa da una carta che ritrae François-René de Chateaubriand, mentre l’altra figura è totalmente inventata. Si respira un confronto, un contatto e un reciproco intendersi.

Mentre ti penso si staccano è un titolo ambivalente, in quanto conserva al suo interno sia il rapporto tra due figure, ricorrente nel lavoro dell’artista, tanto quanto nella celebre poesia di Eugenio Montale, sia qual gioco di parole reso dal significato del soggetto dell’opera stessa, l’insetto.
Gli insetti sono “i più antichi colonizzatori delle terre emerse” e debbono il loro nome alla struttura metamerica di tipo eteronomo del loro corpo che è suddiviso in tre regioni morfologiche distinte e che li rende divisi in unità o segmenti.  Peraltro, il loro nome deriva dal latino in e sectum: “diviso in sezioni”. Il termine ‘dividere’ porta con sé anche il significato di staccare.
Dipoi, gli insetti sono creature abitanti il giardino che, all’interno dell’operato, diviene una tematica significativa, ripercorsa più volte. Al suo interno si condensa quel dualismo, come avviene tra le figure. Un dualismo che ora si situa tra il fruitore e lo spazio, tra l’io e l’atmosfera. Si reitera, in aggiunta e in altra forma, quel concetto di ricongiungimento e di divisione.


In Lessico di base torna, invece, la chimera che, da animale salvifico, diviene ornamento privo delle ali e ripreso dalla decorazione di un bassorilievo cinese della Dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.). La malìa pulviscolare è resa tramite l’impiego di un simil copricapo che Simone Stuto, con la sua vena ‘disegnatoria’, recupera dalla lezione di Leonardo da Vinci e di Albrecht Dürer, nonché dalla visione stilistica di Pisanello per una spazialità priva di razionalità prospettica, in cui il profilo umano assume la propria illusionistica tridimensionalità, al pari di quanto più tardi faranno anche Antonello da Messina, Bellini e Botticelli.
Il copricapo riveste la scatola craniale stessa fino ad estendersi nel volto, quasi ad indicarne un decoro che, come sappiamo, non è mai puramente decorativo nella sua accezione sterile. Tuttavia, la tridimensionalità del lavoro è riconsegnata con la scansione dei tre piani: il piano delle figure, il secondo piano con il tessuto dell’‘arazzo’ con le fiere e i fiori, e in ultimo la parete dipinta di rosa.


Il rosa è anche il colore del tessuto sorretto da esili fuscelli e che forma una quinta per proteggere le due figure dell’opera Chiedesti del mio nuovo partire (2023) da sguardi indesiderati. Il rosa è notoriamente il rilascio spento del rosso, simbolo della regalità per quanto concerne l’iconografia cristiano-medievale e riconducibile al sangue di Cristo. Il suo complementare – che denota il tono dei corpi – è fondamentale dichiarazione di una privata sessualità, al fine di raffigurare un amplesso tra due esseri, tra due individui, in conseguenza del quale è impossibile identificare la differenza di appartenenza degli arti inferiori. Nel blu di Prussia scuro – che sommerge lo sfondo del mondo esotico – è racchiuso il non conosciuto, a cui l’io consapevole tende ad avviarsi. Il lavoro fa parte di una nuova produzione dell’artista che, attualmente, procede attraverso la progettazione con bozzetti, disegni e studi preparatori.


L’allestimento colpisce per il suo perno, una scultura di piccole dimensioni in ceramica e spoglia volutamente da ogni tipo di finitura, lasciata a biscotto. La tecnica della scultura è percorsa dall’artista fin dalla sua formazione accademica. La sua esperienza a contatto con la ceramica ha avuto inizio nella località di Ronco Biellese, tra i centri italiani della ceramica, vicino a Biella, ove ha vissuto. Il lavoro riprende la tradizione ritrattistica quattrocentesca e, anzitutto, i busti di Francesco Laurana che il Nostro ha potuto osservare approfonditamente con la scultura marmorea “Ritratto di Eleonora d’Aragona”, realizzata intorno al 1468 e custodita nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis, a Palermo. Il ritratto è, infatti, tagliato esattamente all’altezza del petto e richiama le forme pure di Piero della Francesca e di Antonello da Messina.

Il soggetto è effigiato in contemplazione ed è alato. In effetti il titolo Le revenant è tratto dalla poesia di Montale che si riferisce a colui che torna, forse un essere che ha già varcato la soglia dell’aldilà. E, a conclusione della poesia, viene spontaneo chiedersi: chi sono realmente gli autentici? Coloro che sono al di qua o chi ha già ha superato la soglia del visibile?
Montale non si pronuncia, introducendo e definendo semplicemente la figura del pittore “smarrito”, perduto nel mondo per l’incapacità dei viventi di attingere all’impalpabile.


La meraviglia dello sguardo si conclude con due preziosissime e minute pitture su tavola che, insieme ai dipinti su tela e su rame, indicano la vasta indagine tecnica praticata dall’artista. L’analisi atmosferica è paragonabile ai grandi dipinti, mentre aumenta la dose della capillarità del dettaglio.
La figura solitaria indica la totale assenza dell’altro e l’ossessività della sua ricerca, percepita come mancanza esistenziale.

Se in Sortir (2024), nel notturno, il soggetto si avvinghia al circostante, instaurando un rapporto viscerale con la natura; in Aimer (2024), l’individuo è fermato in un clima contemplativo, in cui le pennellate vorticose – che esprimono lo stravolgimento emotivo di un’interiorità sottaciuta – trovano un’olimpica posa nella finissima luminescenza biancastra all’interno del volto.



À REBOURS | ascoltare era il tuo solo modo di vedere
SIMONE STUTO

A cura di Michela Becchis
Curva Pura, via Giuseppe Acerbi, 1/a, Roma
martedì e giovedì dalle 18:30; su appuntamento
Info: +39 331 424 3004
curvapura@gmail.com

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