Gerhard Merz

Signori della notte, padroni del destino

L’appuntamento del venerdì di Sistematica, le riflessioni di Andrea Guastella.

Lunedì scorso, il 17 febbraio, una parte dell’Italia si è fermata. Non per il tormentone di Sanremo, sopito domenica, né per la guerra a Gaza o in Ucraina. Il 17 del mese delle streghe, numero tendenzialmente infausto (XVII, in caratteri latini, è l’anagramma di VIXXI, che vuol dire “son vissuto” …), è la festa dei gatti, che di vite non ne hanno una ma ben sette; una festa già “storicizzata” – la prima edizione risale al 1990 – cui mi sento in dovere di associarmi. Una settimana fa, parlando dei gatti di Goya, ho infatti commesso un atto censurabile: ho paragonato politici arroganti a nobili animali. E non è che io sia il solo a cadere in quest’errore. Persino Goya, nei Capricci, collega a prima vista i gatti al diavolo. Dico così per l’ironia delle sue carte, tese a combattere superstizioni secolari; un’ironia che si taglia col coltello. Chi volesse comprendere davvero il pensiero dell’artista, dovrebbe guardare piuttosto a un suo dipinto che invano cercheremmo al Prado o alla Real Accademia di San Fernando: fa infatti parte, con una dozzina di altre opere, della collezione goyesca del Met di New York. È il ritratto di Don Manuel Osorio de Moscoso y Manrique de Zúñiga, un principino che, a dispetto del nome altisonante, è alto un metro o poco più. Goya, che aveva fatto il ritratto a tutti i membri della sua ricchissima e nobilissima famiglia, dedica a lui un’attenzione speciale. Non sembra il ritratto di un bimbo più vero del vero come quelli, mirabili, confezionati da Velázquez per i piccoli Asburgo; sembra il ritratto di una bambola cinese, una di quelle porcellane colorate che le nonne di una volta si divertivano a intronare in pose plastiche sui divani del salotto. Una bambola pallida, dagli occhi persi nel vuoto, che indossa il suo abito sgargiante come se non avesse niente addosso: che cosa importa, del resto, di una magnifica veste color sangue a chi sangue in corpo non ne ha? In effetti il principino morì giovane e in parecchi datano l’opera post mortem. Io non ne sono certo. Il pupazzo di Don Manuel se ne sta fermo lì nel suo cantuccio, come se nulla gli importasse, mentre ai suoi piedi il gioco eterno si rinnova. Alla sua sinistra, cioè alla nostra destra, si trova una gabbia di fringuelli; al lato opposto sono accucciati tre gatti: l’innocenza, cioè gli uccellini in gabbia, è sempre minacciata. Come se non bastasse, i gatti hanno davanti agli occhi una gazza, tenuta al laccio da Don Manuel, con nel becco un biglietto da visita col nome dell’artista, che sembrerebbe dunque la meta designata. E tuttavia solo uno dei gatti punta la gazza; un altro sembra distratto, un terzo, nero, quasi un tutt’uno con il fondo, mira altrove. Il vero premio sta fuori dal dipinto. Ma non è affatto il pranzo del micetto. Lui e gli altri gatti sono soltanto le zanne e gli artigli di una sorte che ci scruta con occhi ora assenti ora vogliosi che risplendono come fiaccole nel buio. Una sorte a cui nessuno, a cominciare da Don Manuel per finire con Volodymyr Zelens’kyj, un tempo eroe, oggi “dittatore e comico mediocre”, può sfuggire. Lunga vita ai gatti, signori della notte, padroni del destino.