«Ciò che vediamo è un’ombra della verità, e ciò che non vediamo è la verità stessa.», scrive Jorge Luis Borges. L’inquietudine che mira alla conoscenza da sempre induce l’uomo a domandarsi che cosa sia reale e cosa non lo sia, iniziando a intrecciare un dialogo complesso tra la percezione e la realtà. Un dubbio che si fa strada sin dal 427 a.C. con l’allegoria della caverna di Platone o ancora con il “genio maligno” di Cartesio, ispirando anche romanzi dalle sfumature oniriche, come Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol e trovando, anche, spazio nella cinematografia di massa in opere come The Truman Show o il più fantascientifico Matrix.
La mostra Ombre di vita. Non è solo una questione di reale evoca immediatamente la sensazione che percepiamo nel tentativo costante di esplorare il nostro essere, dove anche l’ombra di noi stessi diventa una traccia di esistenza, che si svincola dal nostro controllo e dalla nostra comprensione. Le ombre, riflessi evanescenti plasmati dalla distorsione della luce, riflettono la sfuggevole e imperfetta vita. Talete (624-546 a.C. circa) riuscì a determinare l’altezza della grande piramide di Cheope proprio osservandone e misurandone l’ombra. È nell’ombra celata che sta l’immagine capovolta della sorgente!
Cos’è, quindi, la verità e cos’è l’illusione? La mostra ci suggerisce una risposta… la nostra comprensione della vita è incompleta e parziale, una proiezione sfocata di qualcosa che non possiamo vedere con la lente dei soli sensi. Immanuel Kant teorizza che non ci è dato conoscere la realtà in sé, il noumeno, ma solo come essa ci appare attraverso l’esperienza del corpo, il fenomeno. Poi, però, dobbiamo fare i conti con ciò che è invisibile, con quei limiti imposti dalle nostre capacità sensoriali, con l’ombra delle parti oscure e inespresse di noi stessi, quei tratti della nostra psiche che scegliamo di ignorare, quelle forze invisibili che influenzano il nostro comportamento e la nostra percezione. D’altronde, la tradizione occidentale ci insegna a separare il reale dall’irreale, il concreto dall’astratto, ma in un mondo dominato dal razionalismo e dalla certezza, l’arte diventa il luogo della follia che ci abita, in cui l’irrazionale o il soggettivo possono coesistere con il razionale.
Le opere esposte sembrano voler sottolineare l’importanza di un’interpretazione pluralistica della sfera dell’esperienza, in cui le ombre e le sfumature sono parti integranti di un vissuto che va oltre la verità oggettiva.
Il curatore Gabriele Perretta, con il suo ultimo libro Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva, tratta in modo articolato la questione della “crisi del vedere”, di come la saturazione mediatica e l’esasperazione della comunicazione visiva ci abbiano portati a oscurare l’occhio interiore, il “terzo occhio”, e a perdere “l’immediatezza percettiva”. Questa cecità ci fa cogliere il bello attraverso la manipolazione della moda, della vanità artificiosa dei prodotti di mercato, delle immagini vorticosamente propinate, facendoci perdere in noi stessi, quindi, anche se interconnessi, ci sentiamo soli, distaccandoci dal nostro vero daimon.
Gabriele Perretta, noto come scrittore, critico d’arte, semiologo della comunicazione, alla fine degli anni ’80, elabora la “teoria critica intermediale”, da lui stesso definita Medialismo, che scruta i sistemi comunicativi e ne analizza i cambiamenti sociali dal punto di vista estetico ed etico, destrutturandoli per poi arrivare a una visione più profonda dell’arte e dell’artista. Giorgio Lupattelli (1958) negli anni ’90 aderisce al Medialismo, testimone dell’escalation della proliferazione dei media, fenomeno analizzato attraverso la teoria della convergenza mediatica, e inizia a interrogarsi sul valore sociale delle informazioni che travolgono il nostro tempo. Dall’inizio della sua carriera, esplora diverse forme espressive: dal disegno alla pittura, dal digitale al video, dalla scultura all’installazione, immergendosi nell’universo “mediale” con uno sguardo critico. Il suo lavoro affonda nella memoria collettiva, collocando al centro i grandi temi della condizione umana come la solitudine, l’impatto della tecnologia sulla società, le contraddizioni morali e le disuguaglianze, la confluenza dialettica tra arte e scienza, le tormentose cicatrici del corpo, le infestanti fobie che intossicano la mente, l’abuso di sostanze che invadono e intorpidiscono l’anima. Le sue opere non si limitano a rappresentare, ma indagano le origini e l’eco sociale di ogni informazione, rivelando la forza dirompente e il condizionamento dei mass media. Questo processo non è privo di rischi, poiché può facilmente scivolare verso la retorica pop o rimanere intrappolato in una ripetizione stilistica che non interpreta, ma si limita a riflettere il vero. Tuttavia, riesce a creare immagini condensate, archetipi delle contraddizioni dell’epoca tecnologica. Lupattelli conosce l’inquietudine, conosce le fratture della vita, ne fa esperienza e ne sonda le ombre attraverso la coerenza estetico-compositiva dei suoi lavori, delineando contorni, stendendo colori e sfumature che definiscono una tensione sottile, un equilibrio invisibile e precario di stampo classico, non inteso come citazione diretta e formale delle iconografie e delle tradizioni artistiche antiche, ma come riflessione sugli eterni dilemmi umani che si diluiscono tra le pieghe dell’odierno labirinto sempre più interconnesso.




“Non è solo una questione di reale” anche per Moreno Ovani (1969). Dalle sue tele emerge una mimesis del corpo femminile e di quello maschile, in senso aristotelico del termine, che non si esaurisce a una mera riproduzione della natura, ma che, riflettendo la legge universale dei moti interiori, acquisisce una funzione catartica. Le sue figure si erigono come simboli di una potenza tanto mentale quanto fisica, in grado di imprimere un’immediata scossa emotiva nello spettatore. Sono ombre che vibrano tra lacerazioni, nastri adesivi e veline sovrapposte, dando vita a sculture animistiche, un diario visivo e intimo che racconta storie il viaggio parallelo dei generi umani.

«Mira si trovava davanti allo specchio, il cuore che batteva forte nel petto. I suoi occhi, di un blu intenso, riflettevano non solo la sua immagine, ma anche un turbine di emozioni e domande. Ogni giorno si sentiva intrappolata in una vita che sembrava non appartenere a nessuno se non a un’idea di ciò che gli altri si aspettavano da lei. “Chi sono veramente?” si chiedeva, mentre un sospiro profondo le sfuggiva dalle labbra.
Le sue mani sfioravano la superficie fredda dello specchio, come se potesse toccare l’anima che stava cercando. La paura del fallimento e il desiderio di libertà danzavano in un balletto confuso nella sua mente. Mira chiuse gli occhi e immaginò di essere qualcun altro, qualcuna che viveva senza limiti, senza le catene del giudizio. Ma quando riaprì gli occhi, la realtà tornò a colpirla. Con un ultimo sguardo al riflesso, decise di iniziare un viaggio verso la scoperta di sé, un passo alla volta, abbracciando i suoi dubbi come parte della sua esistenza. La ragazza allo specchio non era solo un’immagine, ma una promessa di diventare finalmente chi desiderava essere.», parafrasi dell’opera Mirami narrata da Alessandro Leanza, direttore di Laboratorio41 Art Gallery.



La mostra si arricchisce con opere “tristemente” ironiche che hanno la forza di catapultarci dentro il femminile svuotato di significato, l’ombra di una verità scomoda e disturbante. Le sculture di Paolo Cassarà (1968) si ispirano alla strada, alla vita quotidiana colma di identità che vagano per trovare l’essere nell’apparire. Lui ci presenta il calco di una fisicità femminile martoriata dall’ambizione di una perfezione alienante, che imprigiona corpo, anima e mente. Ma chi sono quelle donne? Perché ci disturbano, ci offendono? Perché parlano di qualcosa di familiare, che non vogliamo vedere, della passiva accettazione del “non senso” di vite che anelano a un perfetto “absurdismo”, cioè all’idea di una ricerca di destinazione in un mondo abissalmente confuso. Sono ballerine fetish imbrigliate e azzittite da maschere, simbolo di un maschilismo secolare, che tuttavia accettano di vestire. D’altronde, secondo il Global Gender Gap Report, ci vorranno almeno 131 anni per colmare il divario globale di genere, mentre per colonizzare Marte ne basteranno 25. Questo paradosso ci rimanda alla cecità del nostro “terzo occhio”, che non vede il silenzioso regredire dei diritti delle donne, palesando un’involuzione di stampo medievale. Siamo danneggiati dalla superficialità delle percezioni quotidiane, mentre quelle più insondabili sono dominate dal pensiero razionale e dalla distrazione.



Nel cuore di una provincia talvolta considerata marginale rispetto ai grandi poli culturali, nasce Laboratorio41 Art Gallery, uno spazio di 500 mq, inaugurato nel 2012 grazie alla visione lungimirante di Alessandro Leanza, che con tenace resilienza ha consolidato nel tempo la propria identità, proponendosi di offrire sentieri che sfidano le convenzioni e stimolano una riflessione critica sulla società odierna. La mostra Ombre di vita. Non è solo una questione di reale ha è innescato un dialogo tra Giorgio Lupattelli, Paolo Cassarà e Moreno Ovani, tre artisti che, adoperando lo stesso linguaggio alienato attraverso cui questo mondo si esprime, si sono presi a carico le condizioni di crisi della nostra contemporaneità per demistificarla e smascherarla dalle indotte apparenze.
«Così come le forme di vita sono lo studio dell’apparizione dell’essere, o la psicologia è lo studio della psiche, l’ombra non è solo una questione di specchio del reale – o meglio ancora di somiglianza dell’essere – del metodo (e delle tecniche), essa si riferisce, cioè, a quella parte della logica dell’immagine che ha per oggetto la specularità ontologica dell’arte stessa: i segni di riconoscimento e le condizioni formali, che stanno alla base della ricerca artistica e che consentono di veicolare, sistemare e accrescere le nostre percezioni.», dal testo critico del curatore Gabriele Perretta.


